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Myanmar, i due giornalisti birmani della Reuters liberati con un’amnistia di massa
Dopo 511 giorni di carcere, sono stati liberati Wa Lone e Kyaw Soe Oo, i due giornalisti birmani della Reuters che avevano scoperto il massacro di dieci civili rohingya da parte delle forze di sicurezza. I due giovani reporter sono usciti dalla famigerata prigione di Insein, dove sono stati rinchiusi molti dissidenti tra i quali la stessa
Dopo 511 giorni di carcere, sono stati liberati Wa Lone e Kyaw Soe Oo, i due giornalisti birmani della Reuters che avevano scoperto il massacro di dieci civili rohingya da parte delle forze di sicurezza. I due giovani reporter sono usciti dalla famigerata prigione di Insein, dove sono stati rinchiusi molti dissidenti tra i quali la stessa Aung San Suu Kyi, grazie a un’amnistia di massa. Altri 6.520 prigionieri, infatti, hanno ottenuto tale provvedimento di clemenza dal presidente Win Myint.
.@Reuters reporters Wa Lone and Kyaw Soe Oo jailed in Myanmar freed from prison after more than 500 days https://t.co/8TUUnZtvNV pic.twitter.com/fhVxmOyNty
— Reuters Top News (@Reuters) 7 maggio 2019
Metodi birmani, da un processo farsa a un’amnistia di massa
Wa Lone, 33 anni, e Kyaw Soe Oo, 29, erano stati arrestati il 12 dicembre 2017 mentre stavano completando un’inchiesta sui crimini commessi dai militari birmani e da squadroni di estremisti buddisti nello stato del Rakhine. Alcuni poliziotti del battaglione 8 di Yangon li avevano invitati con una scusa, fermati, interrogati, torturati. Il successivo 3 settembre 2018, attraverso un processo farsesco, erano stati condannati a 7 anni di carcere per “violazione di segreti di Stato”. In realtà, la loro unica “colpa” era stata quella di aver trovato le prove – senza rivelare le fonti che li avevano condotti a esse -dell’esecuzione di dieci civili musulmani, compiuta il 2 settembre 2017, da parte di militari birmani ed estremisti buddisti nel villaggio di Inn Dinn. In quella regione stava avvenendo una pulizia etnica, che ha causato l’esodo forzato in Bangladesh e in altri Paesi asiatici di almeno 700mila rohingya. Dopo il loro arresto, l’agenzia di stampa Reuters ha pubblicato il materiale che avevano raccolto. Lo stesso esercito birmano, ha ammesso che queste esecuzioni erano avvenute, condannando sette soldati a dieci anni di prigione.
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I difensori legali dei due giornalisti, sostenuti anche dall’avvocatessa per i diritti umani Amal Clooney, erano ricorsi in appello, chiedendone la scarcerazione. In una conferenza organizzata lo scorso 28 settembre all’interno del palazzo delle Nazioni Unite di New York, con la collaborazione del Committe to protect journalists, Clooney aveva elencato nel dettaglio le ragioni per cui il processo era stato un “errore giudiziario” e una “una parodia della giustizia”. Ma soprattutto si era rivolta ad Aung San Suu Kyi, consigliere di stato, ministro degli esteri e dell’ufficio del presidente, chiedendo la grazia: “Secondo l’articolo 204 della costituzione del Myanmar, il presidente può concedere la grazia in ogni momento della detenzione. Basta che si consulti con la leader (de facto, ndr) Aung San Suu Kyi, che nel suo primo giorno al governo ha definito sua priorità rilasciare i prigionieri di coscienza”.
Finora, Suu Kyi era stata ferma nell’appoggiare la sentenza del tribunale, dichiarando che il loro caso non c’entrava con la libertà d’espressione. In altri termini, aveva indirettamente lasciato intendere che fosse giusto processarli come “spie”. Qualcosa, però, deve aver fatto cambiare idea al regime, guidato ancora largamente dai militari, anche se in abiti civili. Forse, proprio le pressioni della comunità internazionale, degli attivisti e dei legali impegnati nel caso, come Amal Clonney. In contrasto con quanto sostenuto dall’ex paladina della democrazia birmana e premio Nobel per la Pace, Suu Kyi, lo scorso aprile Wa Lone e Kyaw Soe Oo hanno ricevuto il premio Pulitzer per il giornalismo internazionale.
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Le amnistie di massa sono state utilizzate di frequente dalle varie giunte al potere dal 1962 al 2012, spesso per liberare carceri estremamente affollate, per propaganda in occasione di ricorrenze speciali o per ragioni di opportunità politica. Phil Robertson, che si occupa da molto tempo di Myanmar per Hrw (Human rights watch) ha detto: “Siamo felici che Wa Lone and Kyaw Soe Oo siano usciti da una prigionia ingiusta e si siano riuniti alle loro famiglie. Questi coraggiosi giornalisti investigativi non dovevano essere arrestati, tantomeno incarcerati […]. Ma i problemi non sono finiti per decine di altri giornalisti e blogger birmani che tuttora devono affrontare accuse infondate, dopo essersi occupati del Tatmadaw (l’esercito birmano, ndr) o dei funzionari governativi”.
Thank you, CPJ, for your unyielding support throughout! https://t.co/BSbo9H1AkO — Stephen J. Adler (@stephenjadler) 7 maggio 2019
Il direttore di Reuters, Stephen Adler, ha ricordato che i suoi collaboratori “sono diventati un simbolo dell’importanza della libertà d’espressione in tutto il mondo”. L’auspicio è che, in vista delle elezioni del 2020, la cosiddetta “transizione democratica” riparta e non sia macchiata da altri abusi. La comunità internazionale, però, vigila con cautelae quasi senza aspettative. Secondo la maggior parte degli osservatori, Aung san Suu Kyi non riuscirà a far cambiare la Costituzione in modo da poter diventare presidente della federazione birmana. I militari sono ancora legati saldamente al potere e lo dimostrano le persecuzioni in atto contro i cristiani kachin nel nord e gli stessi musulmani rohingya più a sud-ovest. Tra chi è fuggito nel vicino Bangladesh (almeno 700mila profughi) domina lo sconforto. Da quasi due anni, un’intera popolazione vive senza diritti e in condizioni di estrema precarietà.
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