Dopo decenni di silenzio, l’opinione pubblica e la comunità internazionale hanno iniziato a occuparsi dei rohingya. Ripercorriamo la loro storia di abusi e discriminazioni.
Le prime discriminazioni contro i rohingya in Myanmar sono cominciate negli anni Sessanta, tra negazione della cittadinanza e violenze.
L’annus horribilis è stato il 2017, quando le autorità del paese hanno lanciato un’offensiva che ha costretto 700mila rohingya alla fuga.
Il Myanmar è stato accusato di genocidio, pulizia etnica e apartheid nel caso dei rohingya. E oggi si stanno muovendo le corti internazionali.
I rohingya sono stati definiti dalle Nazioni Unite la minoranza etnica più discriminata del mondo. Oggi sono uno dei più grandi gruppi di apolidi, cioè individui senza cittadinanza, dell’intero pianeta. Si tratta dei musulmani sunniti che abitavano a milioni, e oggi in poche centinaia di migliaia, lo stato di Rakhine, nel Myanmar (ex Birmania), paese a larga maggioranza buddista.
Da decenni sono vittime di abusi di ogni tipo e per il loro caso sono stati scomodati anche termini importanti come pulizia etnica e genocidio. I governi che si sono succeduti nel paese dagli anni Sessanta a oggi, dai militari fino ad arrivare al premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi per poi tornare ai militari, hanno portato avanti nei loro confronti una campagna d’odio che negli anni è andata via via intensificandosi, di fatto annullando i loro diritti e le loro libertà. Il momento più buio si è toccato nel 2017, ma oggi la situazione dei rohingya è ancora molto difficile, anche perché violenze e discriminazioni si sono estese ai paesi dove sono scappati in oltre un milione, come Bangladesh e India.
I rohingya sono una minoranza etnica di fede musulmana sunnita, concentrata nello stato del Myanmar di Rakhine, che affaccia sul golfo del Bengala e confina con il Bangladesh. Sono arrivati sul territorio molti secoli fa, precisamente intorno al 600 d.C., e per lungo tempo hanno vissuto in modo pacifico con le altre etnie della regione.
Alla fine del Diciottesimo secolo sono giunti nella regione i birmani ed è cominciato un periodo di profondi conflitti con l’impero britannico, insediato sul territorio. Oggi sono poche centinaia di migliaia le persone appartenenti alla minoranza che ancora si trovano in Myanmar, nei decenni scorsi il loro numero toccava i 4 milioni e costituiva il 20 per cento della popolazione dello stato di Rakhine. Il crollo demografico è stato causato tanto dagli eccidi subiti quanto dalla diaspora, due processi che si sono mossi in modo parallelo e consequenziale a partire dalla seconda metà del secolo scorso.
Le prime discriminazioni
Quando nel 1948 ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito, la Birmania era un luogo piacevole per i rohingya. Nella costituzione approvata dal nuovo parlamento tutti i cittadini venivano definiti uguali, comprese le minoranze, e tutti venivano iscritti nei registri nazionali per la cittadinanza. Alle elezioni il diritto di voto non conosceva eccezioni e dunque non c’era spazio per la negazione dei diritti civili e politici nel paese. Poi qualcosa è cambiato.
Four years ago, the Myanmar security forces mass murdered, raped, tortured and forced the Rohingya people from their homes to flee to Bangladesh. Those living in Myanmar continue to face apartheid conditions. The persecution of the Rohingya people must end. pic.twitter.com/a0EimqNslN
Nel 1962 con un colpo di stato l’esercito rovescia il governo eletto e prende il potere. All’inizio degli anni Settanta viene redatta una nuova costituzione, decisamente autoritaria rispetto a quella precedente. Vengono bollati come stranieri i cittadini originari dei paesi confinanti ed inizia il declino della condizione dei rohingya, birmani al 100 per cento ma non considerati tali in quanto musulmani in una terra a maggioranza buddista e dunque visti come invasori provenienti da altri paesi musulmani, come il Bangladesh. Da quel momento comincia un sequestro massivo di documenti d’identità dei rohingya e questo comporta un’erosione sempre più grande dei loro diritti, dando il via a un processo di apolidia generalizzata, cioè perdita di cittadinanza.
Nel giro di poco tempo queste prime forme di discriminazioni istituzionalizzate si trasformano in vere e proprie violenze. Con la scusa dei controlli sulla cittadinanza, le case e le restanti proprietà rohingya sono prese d’assalto e distrutte dalle autorità e le prime migliaia di persone decidono di abbandonare lo stato di Rakhine per trovare rifugio in Bangladesh. Inizia così la diaspora rohingya.
Diaspora e rimpatri
Alla fine del secolo scorso le discriminazioni e gli abusi contro i rohingya non smettono, anzi si intensificano. Nuove leggi sulla cittadinanza rendono sempre più difficile per queste persone continuare a essere cittadini della Birmania. In particolare, nel 1982viene approvato un nuovo regolamento che basa la cittadinanza sull’etnicità e che esclude senza fronzoli i rohingya, equiparati di fatto a immigrati clandestini nonostante la loro presenza secolare sul territorio, precedente perfino a quella dei birmani buddisti stessi. Nello stato di Rakhine cresce la tensione, con proteste sempre più frequenti che vengono soppresse con la forza dall’esercito nazionale.
All’inizio degli anni Novanta sul territorio viene lanciata l’operazione Pyi Thaya, una sorta di pulizia etnica che con la scusa di colpire alcune cellule insorgenti di origine musulmana si traduce in una campagna biennale di violenza massiva contro la popolazione rohingya. Circa 250mila persone lasciano il paese per rifugiarsi nel vicino Bangladesh e iniziano a svilupparsi i primi campi profughi nei pressi della città di Cox’s Bazar, dove organizzazioni non governative come l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e Medici senza frontiere offrono la loro assistenza umanitaria, denunciando al contempo la precarietà delle condizioni igienico-sanitarie in cui si trovano a vivere i rohingya. Secondo studi dell’epoca il 58 per cento dei rifugiati bambini e il 53 per cento degli adulti soffrono di malnutrizione.
Yet another fire breaks out at Rohingya refugee camp in Bangladesh, destroying +550 shelters and killing 2 children on March 8.
This keeps happening because the world has turned its back on 1 million Rohingya genocide survivors! pic.twitter.com/Xv5k0xiMkt
Dopo qualche anno i governi dei due paesi siglano accordi di rimpatrio che riportano in modo spesso forzato circa 200mila rifugiati in Myanmar (il nome Birmania decade nel 1989), dove ricominciano le discriminazioni nei loro confronti.
2017: l’anno più difficile per i rohingya
Nel corso degli anni Duemila la condizione dei rohingya nello stato di Rakhine resta critica, nonostante alcuni svolgimenti che farebbero pensare a una svolta positiva, come la riscrittura della costituzione nel 2008 che non avviene però con il coinvolgimento delle minoranze. E nell’ultimo decennio la situazione precipita una volta per tutte.
Nel 2012 scoppiano alcuni scontri tra la minoranza musulmana e la maggioranza buddista del paese. Le autorità militari soffiano su queste tensioni per avere mano libera nella repressione dei rohingya, con l’imposizione di coprifuochi e altre misure restrittive per la loro libertà e il saccheggio indiscriminato di interi villaggi, che riattivano la diaspora verso i paesi vicini. In un rapporto dell’anno successivo, l’organizzazione non governativa Human Rights Watchparla di crimini contro l’umanità e pulizia etnica, avvenuti anche attraverso la formazione di nuovi gruppi islamofobi come il MaBaTha e il 696, quest’ultimo guidato dal monaco buddista Wirathu (chiamato il Bin Laden birmano) e appoggiato dal governo.
Gli anni successivi passano tra elezioni a cui i rohingya non sono ammessi a votare (e che portano al potere la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi), nuove leggi sulla cittadinanza che favoriscono ulteriormente la loro apolidia, regolamenti contro i matrimoni etnici misti e l’esclusione dal censimento nazionale, tutte iniziative volte esplicitamente a tenerli fuori dalla società. Come sottolinea l’organizzazione non governativa Amnesty International, i rohingya si trovano segregati nei loro villaggi e privati della libertà di movimento “attraverso un’intricata rete di leggi nazionali, ordini locali e politiche attuate da funzionari statali che mostrano comportamenti apertamente razzisti”.
Quando nell’ottobre del 2016 l’Arakan rohingya salvation army (Arsa), un gruppo armato rohingya, attacca alcune stazioni di polizia nello stato di Rakhine uccidendo diversi poliziotti, la repressione delle autorità del Myanmar contro tutta la minoranza musulmana è senza precedenti. Centinaia di villaggi musulmani vengono distrutti, le case date alle fiamme senza preoccuparsi delle persone al loro interno. Questo mentre le abitazioni e i centri buddisti vicini restano intatti, a riprova della natura etnica della repressione. Vengono uccisi molti bambini, le donne stuprate. L’Onu istituisce una missione indipendente per investigare sugli abusi commessi dalle autorità del Myanmar, che si rifiutano di collaborare. Human rights watchredige un elenco dei crimini contro l’umanità commessi, che vanno dalla deportazione alla persecuzione, dalle violenze sessuali alle uccisioni indiscriminate.
Solo nel primo mese di violenze ci sarebbero stati almeno 6.700 morti secondo le stime, mentre 700mila persone lasciano il paese, dirette perlopiù in Bangladesh. I rohingya quasi spariscono dal paese. Ma violenze, discriminazioni e condizioni di vita precarie proseguono, tanto per chi rimane in patria quanto per chi riesce a fuggire.
Cresce l’attenzione internazionale
Oggi circa un milione di rohingya vivono in Bangladesh. Il paese non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 e per questo la minoranza musulmana del Myanmar non gode dello status di rifugiati e si trova in una condizione di limbo migliore di quella del suo paese d’origine solo perché caratterizzata da minori violenze.
Ma la situazione nelle decine di campi profughi nell’area di Cox’s Bazaar è critica a livello sanitario e securitario. Gli incendi hanno natura cronica, l’ultimo a inizio marzo ha distrutto circa 2mila abitazioni e portato allo sfollamento di 12mila persone. A livello sociale non va meglio, visto che i rohingya sono oggetto di violenze e discriminazioni e non possono accedere ai circuiti lavorativi, scolastici e sanitari legali. Intanto l’atteggiamento di apertura da parte delle istituzioni locali nei loro confronti va sempre più raffreddandosi, tra tentativi di rimpatrio forzosi e repressione delle forme di autorganizzazione sociale. Chi vive nei campi ha trovato comunque il modo di autorganizzarsi, dotandosi dei principali servizi di base come scuole autonome e presidi sanitari, con il sostegno anche delle organizzazioni umanitarie quali l’Unicef. Ci sono anche giornalisti rohingya nei campi profughi del Bangladesh, alcuni di loro hanno dato vita a Rohingyatographer, una rivista semestrale che tra fotografie e reportage narrativi dipinge la vita a Cox’s Bazaar.
Altre centinaia di migliaia di persone si trovano sparse tra la Thailandia, la Malesia, l’India e gli altri paesi dell’area, mentre chi è rimasto in patria continua a subire violenze e discriminazioni. Dopo la distruzione dei loro villaggi nel 2017 oltre 100mila personesi sono ritrovate a vivere in campi profughi interni che sono vere e proprie prigioni a cielo aperto da cui non possoni muoversi, tanto che Human Rights Watch ha parlato senza mezzi termini di apartheid. Se fino al 2021 queste discriminazioni venivano dal governo di Aung San Suu Kyi, che ha sempre respinto le accuse di genocidio avanzate dalla comunità internazionale e perfino dalla Corte internazionale di giustizia, poi il testimone è passato in mano ai militari, autori di un colpo di stato che tra le altre cose ha peggiorato ulteriormente la condizione dei rohingya.
Sulla questione della minoranza musulmana del Myanmar hanno alzato la voce anche gli Stati Uniti, con il segretario di Stato Antony Blinken che ha parlato a seguito di un’indagine al riguardo di genocidio e crimini contro l’umanità commessi dai militari.
The U.S. declares Myanmar atrocities against Rohingya ‘genocide’. U.S. Secretary of State Anthony Blinken announced the decision during an event at the Holocaust Memorial Museum in Washington DC. pic.twitter.com/2kt9IYnhsS
In effetti, l’attenzione internazionale nei confronti dei rohingya sta crescendo negli ultimi anni. Al di là dei report indipendenti sulle violenze commesse dalle autorità del Myanmar, si sta creando tutto un filone giurisprudenziale per portare i responsabili dei massacri ad espiare le proprie colpe. A novembre 2021 la magistratura dell’Argentinaha deciso di aprire un’indagine sul genocidio dei rohingya, secondo il principio della giurisdizione universale. Mentre in precedenza era stato il Gambia a portare il Myanmar davanti alla Corte internazionale di giustizia con l’accusa di genocidio, un procedimento che è ancora aperto e che ha ottenuto il sostegno anche dei Paesi Bassi e del Canada. Dopo decenni di abusi, qualcosa sta insomma cambiando per “la minoranza etnica più discriminata del mondo”, il popolo rohingya. Ma la strada è ancora lunga e accidentata: nelle scorse settimane l’Onu ha tagliato gli aiuti loro destinata a causa dell’assenza di fondi.
Questa notte Harris e Trump si sfidano alle elezioni presidenziali Usa più incerte degli ultimi anni. Nella piccola Dixville Notch, dove si è già votato, è già pareggio. LifeGate seguirà i risultati dalla tarda serata.
Il partito Sogno georgiano confermato con il 53,9 per cento dei voti. Ma piovono accuse di brogli e interferenze. L’Ue chiede di indagare. Intanto la presidente del Paese invita alla protesta. I vincitori: “Questo è un colpo di Stato”.
Due leggi approvate da Israele a larga maggioranza renderanno di fatto impossibile per l’Unrwa operare a Gaza e in Cisgiordania. La comunità internazionale insorge.
Continua ad aumentare il numero di sfollati nel mondo: 120 milioni, di cui un terzo sono rifugiati. Siria, Venezuela, Gaza, Myanmar le crisi più gravi.
Continua l’assedio israeliano su Gaza nord, dove per l’Onu l’intera popolazione è a rischio morte. Nuovi missili contro l’Iran, mentre in Libano uccisi tre giornalisti.
Dopo tredici anni di conflitto, la crisi umanitaria in Siria è una delle più gravi. Grazie anche al lavoro di WeWorld insieme alla cooperazione italiana, si cerca di dare strumenti agli studenti con disabilità per professionalizzarsi.