Costa Rica, nelle terre del popolo indigeno dei Nairi Awari

I Nairi Awari sono uno dei popoli indigeni del Costa Rica. Spiriti liberi e fieri che non si arrendono alla tutela delle loro terre. Li scopriamo insieme a Diritto a REsistere.

C’è solo il silenzio carico di rumori della foresta, il cielo cupo, voci che parlano la lingua antica dell’universo. Luci soffuse riverberano nella notte. Tre ragazzi nel bianco delle rapide del fiume. Resistono alla corrente e pescano, a mani nude. Cade una stella nel buio ed è una creatura malvagia punita dal cielo: verrà mangiata da un rospo o, se riuscirà a fuggire, si trasformerà in cobra mortale, il più temuto dai Tolok tsakú, del popolo indigeno dei Nairi Awari.

Il territorio dei Nairi Awari si estende per 5mila ettari di foreste sulla Cordigliera di Talamanca, fra le province di Cartago e Lìmon, ed è attraversato dai fiumi Pacuare e Barbilla. È un’area tutelata dalla Legge indigena del 1977, con cui lo Stato del Costa Rica riconosce il diritto inalienabile ed esclusivo dei popoli indigeni ad abitare e proteggere la loro terra. A un primo sguardo la selva appare impenetrabile e disabitata. C’è bisogno di tempo e attenzione per scoprire i sentieri invisibili che conducono a case celate fra gli alberi e solo i ragazzi e le ragazze indigene sanno trovare le piccole colture nascoste nella selva: alberi da frutto, yuca, camote, riso, un po’ di mais. Qui il denaro non esiste, si vive di quello che si produce o che si scambia con le comunità vicine.

I Nairi Awari sono in lotta da secoli ormai contro la violenza e il furto sistematico di terre da parte delle multinazionali, dei narcotrafficanti o semplicemente da parte di chi in queste foreste lussureggianti cerca legno pregiato, animali e piante preziose. Grazie alla legge del 1977, che ha posto il Costa Rica all’avanguardia nel mondo per il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni, qui le loro terre sono tutelate, almeno nella teoria. E attraverso il lavoro impegnato dell’Associazione di sviluppo integrale del territorio indigeno Nairi Awari, della Rete indigena Bribri-Cabecar e dell’Alleanza mesoamericana dei popoli e delle foreste, questo popolo è anche riuscito negli ultimi vent’anni a riscattare quasi 1500 ettari di terra rubata, che ora sta riforestando.

Purtroppo però dalla teoria alla pratica il passo è spesso lungo e basta salire in alto su una collina per rimanere agghiacciati. Le foreste finiscono al confine della riserva indigena, anche un poco prima a dire il vero, subito oltre è terra bruciata. Ci sono le vacche e le distese infinite di ananas e banane. Carne e frutta esotica per i mercati europei e statunitensi, dove i ragazzi indigeni che vogliono guadagnare qualche soldo per studiare lavorano come schiavi. I pesticidi, di cui il Costa Rica è uno dei maggiori consumatori al mondo, vengono spruzzati con piccoli aerei e arrivano anche nel profondo della foresta, uccidendo piante e animali e avvelenando l’acqua. Il fiume invece, il Rio Barbilla da cui i Tolok tsakú dipendono da generazioni, è assediato dalla pesca illegale e dalle ruspe che a valle scavano tonnellate di sabbia e ghiaia per farne cemento.

Jesus, che qui è nato è cresciuto e del fiume conosce ogni segreto, racconta:

“I pesci che per millenni sono vissuti qui e i gamberi giganti non riescono a passare là dove ci sono le ruspe e a risalire la corrente come hanno sempre fatto. Quante specie che io ricordo ora non ci sono più… Il pesce diavolo invece continua ad aumentare e mangia tutto”

Il pesce diavolo è la specie invasiva perfetta, che agevolata dal clima che cambia e dagli eventi estremi che le permettono di diffondersi con maggior velocità nei bacini di acqua dolce sta devastando il Centro America. Qui per contrastarla i ragazzi del villaggio passano le notti a pescare questo terribile predatore pur non potendolo mangiare. E lo fanno a mani nude. A mani nude contro un clima che cambia, tra siccità che distruggono le piccole coltivazioni e lasciano senz’acqua le comunità più distanti dal fiume e le alluvioni che spazzano via le case di legno e paglia. A mani nude contro chi saccheggia le foreste cercando balsa, cedro e caucciù, contro chi caccia e pesca illegalmente e non esita a usare la violenza per continuare a farlo. A mani nude contro i narcotrafficanti che qui si nascondono dalla legge e bruciano e uccidono. A mani nude contro un sistema che misura il valore di una cultura, di un popolo solo in termini di denaro. A mani nude contro il colonialismo culturale dell’Occidente, che si manifesta nelle forme più subdole.

 

Eppure le leggi nazionali e internazionali almeno qui ci sono, esistono e sono riconosciute: come la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, che entrata in vigore nel 1991 e ratificata da venti Paesi tra cui il Costa Rica garantisce la tutela dei popoli indigeni attraverso la salvaguardia della sicurezza delle persone e delle proprietà, oltre a garantire la loro partecipazione in qualsiasi decisione che riguardi le loro terre. Il punto ora è farle applicare prima che sia troppo tardi.

“Vengono a spiegarci come si tutela la natura, ma noi della natura ci siamo sempre presi cura” dice Sara Madriz, della comunità Tolok tsakú e presidentessa dell’Associazione dei giovani Nairi Awari.

Questa è la nostra identità, il nostro modo di vivere. Noi siamo natura. Solo che adesso, dopo aver distrutto la vostra terra, venite a prendere la nostra. Noi continuiamo a lottare per esistere. Resistiamo per difendere queste foreste e questa acqua, che è di tutti.

Sara Madriz

Resistono, nelle mani forte temprate dal lavoro e dall’amore, nello spirito libero e fiero, nel fuoco che brucia negli occhi di chi non si arrende.

Ma per quanto ancora?

Nel cielo le stelle cadono e il pericolo è ben più grande del morso letale del cobra.

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