Nella primavera del 1948 si consumò la guerra arabo-israeliana che vide la vittoria e la nascita dello Stato di Israele.
Durante la guerra l’esercito israeliano svuotò con la forza decine di villaggi arabi, uccidendo o deportando chi si rifiutava di andarsene.
Alla fine 700mila palestinesi dovettero lasciare le proprie case, in quella che oggi è ricordata come Nakba.
Il 15 maggio non è un giorno qualunque per il popolo palestinese. Dal 1948, anno della guerra combattuta e persa contro Israele, quel giorno è simbolo della Nakba, la distruzione e l’esodo palestinese. Vale a dire la cacciata di 700mila persone dalla propria terra, ma anche le persecuzioni, le violenze e la pulizia etnica subita per mano israeliana.
Il 15 maggio è una data simbolica, il giorno successivo a quello in cui è nato lo stato di Israele, il 14 maggio 1948. Ogni anno il popolo palestinese commemora questa giornata e tra i simboli esposti durante parate e manifestazioni ci sono le chiavi, a rivendicare un ritorno imminente nelle case da cui i palestinesi sono stati cacciati con la forza. L’Onu alla fine della guerra del 1948 aveva garantito ai palestinesi il diritto al ritorno nelle proprie case. Israele però si è sempre opposto.
Prima della Nakba
A partire dall’Ottocento la Palestina fu interessata da un lento ma progressivo flusso migratorio dall’Europa. Gli scritti dell’epoca parlavano di un territorio primitivo ma ricco di risorse, un modo per dare slancio alla sua colonizzazione così come per altre aree del mondo.
In Palestina arrivarono viaggiatori alla ricerca di nuovi lidi dove insediarsi, missionaricristiani che volevano riscoprire la Terra promessa, ma il territorio divenne anche al centro dei programmi del movimento sionista. Come scrive lo storico israeliano Ilan Pappé, quest’ultimo nel corso dei decenni “si trasformò in movimento coloniale dopo che i suoi capi decisero di realizzare praticamente, in Palestina, la loro visione di rinascita nazionale”. La Palestina divenne la terra dove dare rifugio agli ebrei perseguitati in Europa e, in prospettiva, il luogo dove creare lo stato di Israele, la casa degli ebrei nel mondo.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si ingrossò il flusso di ebrei verso la Palestina. E l’insediamento avvenne in modo drastico, senza tenere conto di usi, costumi e interessi della popolazione araba locale. Dopo la fine della prima guerra mondiale e la sconfitta dell’Impero Ottomano, la Gran Bretagna divenne sovrana de facto della Palestina e si mostrò favorevole per questioni diplomatiche alla creazione di uno stato ebraico nell’area. L’obiettivo, come sottolinea sempre Pappé, era sviluppare un sentimento filobritannico nelle comunità ebraiche della Russia, ma anche compiacere gli Stati Uniti, dove il peso della comunità ebraica era forte.
Durante il mandato britannico tra gli anni Venti e Trenta la popolazione locale araba e i coloni sionisti si trovarono in una sorta di convivenza forzata, segnata da diversi momenti di tensione e conflitti veri e propri, mentre in Occidente si discuteva se arrivare a una soluzione a due stati o creare un unico stato arabo-israeliano. Con la seconda guerra mondiale e la presa di conapevolezza dell’Olocausto nazista, la spinta internazionale per la creazione di uno stato ebraico in Palestina subì un’accelerata.
Verso la Nakba
L’Onu nel 1947 costituì un Comitato speciale per la Palestina, incaricato di studiare per diversi mesi la questione nell’area e offrire una soluzione alla convivenza tra il popolo arabo e i coloni sionisti. Come scrive lo storico Pappe, gli emissari del Comitato “non avevano esperienza del Medio Oriente né alcuna conoscenza della situazione della Palestina”, inoltre il Comitato “aveva ricevuto uno schema di partizione pronto all’uso dagli abili ben preparati emissari sionisti mentre palestinesi e arabi non furono in grado di proporre alcuna alternativa”.
Palestinians in the 1948-occupied territory march to the sites of the pre-1948 villages of Hawsha and Kasyer marking the 76th anniversary of the ongoing Palestinian Nakba, today. pic.twitter.com/vj8F10rnhz
Il risultato arrivò il 29 novembre 1947 e fu un piano coerente con le rivendicazioni sioniste – fascia costiera, Galilea occidentale e deserto del Negev – e poco comprensivo di quelle della popolazione araba locale, a cui veniva lasciata un‘area minoritaria. La parte araba non accettò il piano, dando ai coloni sionisti il pretesto per crearsi il proprio Stato con la forza, parte di un progetto di espulsione della popolazione locale che era già in cantiere dagli anni Trenta nelle alte dirigenze.
Dopo alcuni scontri più sporadici nell’inverno tra il 1947 e il 1948, con attacchi di matrice araba nei confronti di comunità ebraiche e la distruzione da parte dei coloni sionisti dei primi villaggi arabi, a marzo scoppiò la guerra vera e propria. Come scrive lo storico Pappé, il piano della dirigenza politica ebraica “perseguiva due obiettivi molto precisi. Il primo consisteva nell’impadronirsi di qualsiasi installazione civile e militare abbandonata dai britannici. (…) Il secondo era ripulire il futuro Stato ebraico dal maggior numero possibile di palestinesi”.
Che cos’è la Nakba
Quando il 14 maggio David Ben Gurion, presidente dell’Organizzazione sionista mondiale, dichiarò la fondazione dello Stato di Israele, i villaggi arabi ripuliti erano già 58. I soldati israeliani li circondavano armati, lasciando un lato da cui la popolazione locale era indotta a fuggire. Chi si rifiutava di farlo veniva nel migliore dei casi caricato a forza sugli autocarri per le deportazioni, nel peggiore dei casi fucilato a freddo. A volte le fucilazioni avvenivano nelle prime fasi dell’assedio, così da terrorizzare le popolazioni locali. Una volta svuotati, i villaggi venivano distrutti e spianati, per costruire nuovi insediamenti dalla toponomastica ebraica per impedire rivendicazioni future da parte araba.
Migliaia di palestinesi furono espulsi dalle loro case e finirono a vivere in tendopoli messe su in fretta e furia dall’Onu. Questa operazione di cacciata dalla propria terra e di pulizia etnica, messa in atto da Israele nella primavera del 1948, rappresenta la Nakba, la “catastrofe”. La sua commemorazione avviene il 15 maggio perché quello è il primo giorno di vita dello Stato di Israele e dunque, probabilmente, il giorno più difficile per la popolazione palestinese locale. L’assedio ai villaggi andava avanti in realtà già da parecchie settimane, ma è proprio dal 15 maggio che la situazione precipitò. Una coalizione di stati arabi – Egitto, Iraq, Giordania, Siria – si unì ai combattenti arabi locali contro Israele. Inizialmente riportarono qualche successo, ma poi il meglio preparato esercito israeliano riconquistò le sue posizioni e anzi, estese il controllo anche a territori che non gli venivano riconosciuti dal piano dell’Onu. Alla fine furono 700mila i palestinesi che dovettero lasciare le proprie case.
Dopo la Nakba
I profughi palestinesi espulsi durante la Nakba non sono mai ritornati nelle loro case. Nel 1949 Israele ha siglato alcuni accordi con quegli stati arabi con cui aveva combattuto l’anno precedente, inoltre l’Onu ha accettato l’estensione del controllo israeliano oltre ai territori che lui stessi gli aveva assegnato, a discapito della Palestina. Nel 1948 l’Onu aveva peraltro garantito il diritto dei palestinesi al ritorno nelle proprie case, elemento simboleggiato ancora oggi dalle chiavi nelle commemorazioni. Questo non è mai avvenuto.
Nel 1949 è nata l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente (Unrwa), per gestire la crisi dei rifugiati conseguente alla Nakba. Vennero creati campi profughi che nel corso degli anni si sono trasformati in spazi più organizzati, con le tende sostituite da strutture solide vere e proprie dove però ancora oggi mancano gran parte dei servizi essenziali. L’Unrwa si è occupata di offrire sostegno umanitario a queste persone e, con il passare dei decenni, ai loro discendenti. I servizi offerti riguardano l’educazione, l’alimentazione, il lavoro e di fatto tutto ciò di cui i profughi palestinesi necessitano nelle difficili condizioni in cui da decenni si trovano a vivere.
I profughi attualmente registrati presso l’agenzia dell’Onu sono circa 5,9 milioni. L’Unrwa opera attraverso il lavoro di circa 13mila dipendenti, di cui la gran parte sono proprio quegli stessi profughi palestinesi che hanno ricevuto la sua assistenza. L’agenzia Onu è infatti uno dei principali datori di lavoro nella Striscia di Gaza e l’assunzione di personale e l’assistenza umanitaria fornita alla popolazione dipende per il 99,4 per cento dalle donazioni internazionali pubbliche e private. Negli ultimi mesi i finanziamenti hanno subito un crollo dopo che Israele ha accusato dodici dipendenti (su 13mila) dell’agenzia di essere stati coinvolti in qualche modo nell’attacco dell’organizzazione estremista palestinese Hamas in suolo israeliano, il 7 ottobre, costata la vita a 1.200 persone. Quel giorno si è scatenata l’offensiva militare israeliana sulla Striscia di Gaza, costata finora la vita a 35mila persone.
L’Unrwa ha avviato un’indagine interna per verificare le accuse di Israele, che in questi mesi non sono mai state certificate. Anzi, un’indagine indipendente guidata dall’ex ministra degli Esteri francese, Catherine Colonna, ha evidenziato che Israele non ha mai fornito prove riguardo alle sue accuse all’Unrwa, nonostante in questi mesi l’agenzia abbia loro trasmesso tutte le informazioni richieste sui suoi dipendenti. Anche per questo, diversi paesi hanno riattivato i finanziamenti all’agenzia.
Numerose ong hanno sottolineato la situazione drammatica della popolazione palestinese a Gaza, chiedendo a Israele di rispettare il diritto umanitario.
L’Assemblea generale dell’Onu ha dato mandato alla Corte internazionale di giustizia di valutare le conseguenze legali dell’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele.
Il presidente Biden ha annunciato nuovi aiuti all’agenzia Onu per la Palestina, sconfessando la sospensione dei finanziamenti voluta da Trump nel 2018.
Un rapporto delle Nazioni Unite condanna i colpi sparati dai soldati dello stato di Israele, che hanno provocato 189 morti e 6.100 feriti tra i palestinesi.
Il presidente Sergio Mattarella è stato in Medio Oriente per parlare di Unesco con Israele e spingere, insieme alla Palestina, per la soluzione dei due stati.
La risoluzione Unesco parla di Palestina occupata e chiede a Israele di rispettare i patti sulla Spianata delle moschee, a Gerusalemme. L’Europa, Italia in testa, non ci sta.
Settembre si è chiuso con l’innalzamento della bandiera palestinese alle Nazioni Unite, ma il mese che è appena cominciato ha visto un’intensificazione della violenza in Cisgiordania, la parte più estesa dei Territori palestinesi. Scontri tra palestinesi e l’esercito israeliano hanno causato la morte di due adolescenti palestinesi e ferito quasi 500 loro connazionali. Altri due adolescenti palestinesi sono