Circa 40.000 persone hanno sostenuto le richieste indigene, che si oppongono a un progetto di revisione del trattato fondativo della Nuova Zelanda.
Nativi americani, le lotte contro le politiche anti-ambientaliste di Trump
Tra l’impegno contro gli oleodotti e a favore della biodiversità, e l’elezione delle prime rappresentanti donna al Congresso, i nativi americani sono sempre più attivi contro le politiche di Trump e in difesa della loro terra.
Un aneddoto diventato virale sul web negli Stati Uniti racconta di un sostenitore di Donald Trump che, durante una manifestazione a Phoenix, in Arizona, avrebbe insultato alcuni passanti “colpevoli” solo di non avere la pelle bianca come lui. Fra gli improperi, anche l’ormai sempre più diffuso invito a “tornare a casa vostra”. Peccato però, che i passanti fossero nativi americani.
L’episodio, che è accaduto realmente, descrive bene la situazione attuale del paese: le divisioni sono sempre più marcate e fra i gruppi maggiormente colpiti ci sono anche i suoi abitanti indigeni. Ora che alcuni di loro sono entrati a far parte della Camera dei rappresentanti, è probabile che in futuro si sentirà parlare di nativi americani (la definizione “indiani” è oggi in disuso ed è considerata offensiva) in modo diverso, con sempre più rispetto e considerazione. Grazie anche all’impegno e alla tenacia che hanno dimostrato nel lottare contro alcune delle politiche di Trump che impattano di più sull’ambiente.
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Nativi americani contro il petrolio
Il Dakota access pipeline è un oleodotto che serve a trasportare il petrolio negli stati centrali degli Usa. Dall’annuncio del progetto nel 2014 sino alla sua inaugurazione nell’aprile del 2017, l’enorme conduttura è stata oggetto di molte proteste per i rischi ambientali – la costruzione modifica notevolmente un territorio coperto di boschi e foreste, e l’habitat di diverse specie animali – e quelli legati alla salute dei cittadini – al pericolo di esplosioni come quella avvenuta di recente si somma il rischio di contaminazione delle falde acquifere.
I nativi americani, specialmente quelli delle tribù Sioux, sono riusciti a ritardare l’attivazione dell’oleodotto e ancora oggi stanno lottando per evitare che raggiunga alcune parti dello stato del Louisiana. Ma, ancora più importante, hanno puntato i riflettori sul modo in cui il progetto ha tenuto conto solo superficialmente delle questioni ambientali. Proprio in questi giorni è stato rivelato che le promesse fatte dalla ditta costruttrice sulla semina di alberi nel territorio percorso dall’oleodotto non sono state rispettate. Una notizia che avrebbe avuto meno eco senza l’attenzione portata dagli attivisti indigeni.
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Inoltre, stanno lottando contro l’apertura di un altro oleodotto, Keystone Xl che dovrebbe collegare lo stato del Montana al Canada e la cui costruzione ha ricevuto la benedizione di Trump per procedere. Non contenti delle manifestazioni sul campo, le tribù ora sono passate ai fatti, sporgendo denuncia contro il presidente americano in una corte federale. Ma non solo petrolio: le mire di coloro interessati all’estrazione di risorse naturali non hanno limiti, e così i nativi hanno intrapreso un’altra protesta.
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Per fermare l’estrazione di uranio
Una vittoria, questa volta sembrerebbe non solo temporanea, è stata ottenuta dai nativi americani nello stato dell’Arizona. Qui la Corte suprema ha deciso di confermare il blocco all’estrazione dell’uranio da alcune miniere vicino al maestoso Grand Canyon. Nonostante il divieto già imposto da Barack Obama, alcune aziende avevano intenzione di fare ricorso per potere estrarre l’uranio; una pratica che avrebbe messo a rischio tutta l’area circostante, composta da paesaggi splendidi, tra cui diverse cascate azzurre. I membri della tribù degli Havasupai sono intervenuti per protestare contro il tentativo delle aziende con interessi minerari, convincendo un giudice a decidere di non accettare il ricorso. Ma l’amministrazione Trump ha già fatto capire di voler combattere il veto imposto da Obama.
A favore del ritorno dei bisonti
Oltre ad aver protetto il Grand Canyon, i nativi americani, che sono circa cinque milioni in totale negli Usa, hanno rivolto le loro attenzioni anche al mondo degli animali minacciati dalle politiche di Trump che danno il via libera allo sfruttamento del territorio. Infatti, il presidente ha voluto ridurre le dimensioni di alcuni parchi nazionali e di certe aree verdi. L’intervento dei nativi in questo ambito si è concentrato, ad esempio, sulla salute dei bisonti.
Dopo essersi già schierati in passato per fermare l’uccisione dei “buffalo”, come vengono chiamati i bisonti (animali sacri per loro), di recente le tribù Assiniboine e Sioux si sono impegnate a favore di un programma per incentivare la crescita della popolazione di questi animali nel Parco nazionale di Yellowstone, diviso tra gli stati del Montana, dell’Idaho e del Wyoming, già passata da poche unità a oltre quattromila esemplari. “Abbiamo visto l’ecosistema rinascere – ha raccontato Robert Magnan, che è stato coinvolto nel progetto –. Gli uccelli delle praterie sono tornati, le erbe autoctone prosperano. Accogliamo con favore e aspettiamo i benefici portati dai bisonti nelle nostre terre tribali”.
I am honored to be a part of this time in history when so many new voices are being included in our national discussion. It will be a special privilege to serve alongside @Deb4CongressNM. I am inspired by the work she has done for her community & am grateful for her friendship. pic.twitter.com/fUHCubmE3M
— Sharice Davids (@sharicedavids) 13 novembre 2018
Una nuova ondata politica per un futuro migliore
Per riprendersi quella che è la loro terra per definizione, gli abitanti indigeni degli Usa hanno rinnovato anche il loro attivismo politico. Alle ultime elezioni di metà mandato, i “midterm” che si sono tenuti il 6 novembre scorso, Sharice Davids e Deb Haaland sono diventate le prime candidate native americane elette alla Camera dei rappresentanti. Si spera che siano le prime di una lunga serie a entrare a far parte del governo, e che possano dare il loro contributo a prendere decisioni sulla propria nazione. Dopo secoli di sottomissione e relegazione con conseguenze negative sulle tribù come alti tassi di alcolismo e di suicidio, i nativi americani rivedono di nuovo la luce e non sarà certo Trump a fermarli. Anzi, in un mondo dove l’opposizione si è spostata sui social ed è sempre meno efficace, le lotte degli indigeni sono una delle ultime ancore di salvezza per fermare i soprusi dei politici senza scrupoli.
La prima Indigenous peoples march il 18 gennaio
Un’associazione che riunisce le tribù americane e altri popoli indigeni del mondo nota come Indigenous peoples movement organizza una marcia su Washington DC il 18 gennaio davanti al dipartimento degli interni, che si occupa di gestire il territorio e i parchi statunitensi: la prima manifestazione del suo genere. Sono attese almeno diecimila persone che parteciperanno per dare risonanza ai problemi delle popolazioni indigene del mondo – ci saranno fra gli altri aborigeni australiani, africani e brasiliani, questi ultimi già in lotta contro le politiche messe in atto dal neoeletto presidente Jair Bolsonaro – e alle leggi che andrebbero adottate a favore dell’ambiente. La Casa Bianca è a pochi passi e probabilmente i nativi si faranno sentire anche dal presidente Trump.
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