Dal mischiglio della Basilicata alla zucca malon del Friuli al cappero di Selargius, in Sardegna: i presìdi Slow Food che valorizzano prodotti dimenticati, ma di fondamentale valore per la biodiversità, il territorio e le comunità.
Come (non) è cambiata la natura nei campi (bio) durante la pandemia
Durante il primo lockdown ci siamo meravigliati di come la natura avanzasse negli spazi lasciati liberi dagli esseri umani. Questo accade ogni giorno nei campi bio. Anche senza pandemia.
Un anno fa, mentre l’Italia conosceva per la prima volta la parola lockdown, la natura si riprendeva a poco a poco i suoi spazi. Con le attività e i rumori umani confinati dentro le case, gli animali selvatici avevano fatto la loro comparsa nei centri urbani, tra il cemento era spuntata nuova vegetazione, i fiori cresciuti ai bordi delle strade avevano favorito il nutrimento delle api che, senza smog, riuscivano anche a orientarsi più facilmente tra i profumi.
Le immagini satellitari della Nasa, elaborate dal progetto Earth Data Covid-19, avevano registrato una diminuzione di un terzo dell’inquinamento atmosferico nelle città nel giro di poche settimane e una qualità dell’aria e dell’acqua migliorata del 40 per cento. E questi segnali erano apparsi a tutti come un insegnamento da recepire per ripartire da un mondo diverso. Un mondo come già è quello degli agricoltori biologici, dove tutto questo rappresenta la normalità, con o senza lockdown. Sì, perché chi produce bio lo fa in un ambiente lontano dall’inquinamento e senza inquinanti, caratterizzato da vegetazione rigogliosa e popolato da animali e insetti.
Quando le coltivazioni bio si riconoscono a occhio nudo
Negli anni’70, Alberto Rossi è stato uno dei pionieri dell’agricoltura biologica in Trentino: quando ha iniziato a coltivare i primi alberi a Cles, in Val di Non, ha capito presto che i pesticidi non facevano per lui: “Ero sempre impregnato di queste sostanze con cui facevo i trattamenti ed ero preoccupato per la mia salute”, racconta. “Così ho deciso di fare agricoltura in modo diverso”. Oggi, la sua azienda, portata avanti dai figli Marco e Paolo, produce principalmente mele e pere, poi ciliegie, prugne, albicocche, noci, nocciole, ed è perfettamente integrata nella natura che la circonda, il Lago di Santa Giustina da una parte e i boschi dall’altra: “Un terreno coltivato con metodo biologico si riconosce da lontano per la ricchezza di siepi, arbusti e piante che circondano le coltivazioni”, spiega Alberto. “E per la presenza di animali: qui avvistiamo moltissime specie di uccelli, donnole, lepri, scoiattoli”.
Biologico è sinonimo di cura del territorio
Anche la storia di Agricola Rufrae, azienda biologica e biodinamica di Presenzano (Ce), inizia negli anni ‘70 con due fratelli, uno medico e l’altro economista, che acquistano una masseria con un uliveto e un noccioleto. Non conoscono niente di agricoltura, ma sanno che lavoreranno rispettando la natura. Una sensibilità raccolta anche dalla nuova generazione alla guida dell’azienda, rappresentata da Filippo, Luigi e Gabriella: “Fare agricoltura non è solo prenderci cura degli alberi che ci danno i frutti, ma anche di quello che ci sta intorno perché tutto – uomo, piante, animali – è connesso”, spiega Filippo. “Ogni coltivatore biologico è un artista del paesaggio e noi sentiamo il nostro lavoro come una responsabilità. Come agricoltori possiamo e dobbiamo fare qualcosa per l’ambiente, ad esempio piantare nuovi alberi”. Ogni anno l’azienda mette a dimora un filare di alberi non dedicato alla produzione (nel 2020 sono stati piantati tigli e cipressi), alberi che, tra le altre cose, permettono alle api di prosperare e di garantirci con il loro lavoro la biodiversità alimentare.
Apicoltura biologica e nomade
Stefano Nucci e il figlio Elia, apicoltori di Santarcangelo di Romagna (Rn), vivono la loro professione come una missione: “Ci sentiamo importanti perché siamo consapevoli che senza api non ci sarebbe vita e che senza apicoltori, al giorno d’oggi, le api non avrebbero vita facile”. La famiglia Nucci si prende cura dei propri impollinatori facendo un tipo di apicoltura biologica e nomade: “Il lavoro con le api è un lavoro che non può prescindere dalla natura e non avrebbe senso non rispettarla con prodotti chimici dannosi”, spiega Elia. “Spostiamo gli alveari sul territorio della Romagna in base alle fioriture in zone boschive o in aziende agricole biologiche, lontano dallo smog e dai pesticidi”. “Come immagini un mondo senza api?”, gli chiediamo. “Non esiste un mondo senza api”, risponde. “C’è chi sta sperimentando l’impollinazione manuale o con api robot, ma perché, invece di inventare chissà cosa, non salvaguardiamo la natura così com’è?”. E come potremmo dargli torto?
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