Nel 2019 la nazionale americana di calcio femminile ha fatto causa alla Federazione per ottenere condizioni salariali uguali a quelle degli uomini. Poi ha vinto il suo quarto Mondiale.
Mentre l’Italia agli Europei 2020 va in fuorigioco nel tentativo di capire se inginocchiarsi o meno contro il razzismo prima del calcio d’inizio delle partite – un gesto simbolico nato negli Stati Uniti per mostrare solidarietà verso il movimento Black lives matter e contro le disuguaglianze – sull’altra sponda dell’oceano qualcosa si muove davvero. Da New York a Los Angeles continua ormai da due anni la lotta della nazionale di calcio femminile degli Stati Uniti contro il gender pay gap, il divario salariale tra uomini e donne, per ottenere uno stipendio e condizioni contrattuali quantomeno uguali a quelli di cui godono i colleghi maschi.
Negli Stati Uniti infatti il calcio è un gioco da ragazze: la squadra femminile è ben più popolare rispetto a quella maschile, ha vinto quattro Mondiali – tra cui anche quelli degli ultimi due tornei giocati nel 2015 e nel 2019 – e quattro ori olimpici. Il team maschile, per ora, vanta solo un bronzo ai Mondiali, conquistato nel 1930.
Le calciatrici hanno deciso di non stare più in silenzio: nel 2019, pochi mesi prima dell’inizio del Mondiale di Francia che le avrebbe incoronate campionesse per la quarta volta, hanno fatto causa al loro datore di lavoro – la Federazione americana di calcio – per denunciare il trattamento di secondo livello subito a confronto della squadra maschile.
Complice il successo della nazionale americana al Campionato mondiale del 2019 in Francia, nel giro di pochi mesi la squadra allora guidata Megan Rapinoe – e oggi capitanata invece da Becky Sauerbrunn – è diventata il simbolo globale della lotta per l’uguaglianza di genere, celebrato anche dal documentario LFG – Let’s fucking go diretto da Andrea Nix Fine e il marito Sean Fine è uscito lo scorso 24 giugno negli Stati Uniti (su Hbo, ma non ancora disponibile in Italia). Il titolo ricorda il motto informale della squadra. Il film segue sei giocatrici dall’inizio della causa fino alla prima sconfitta, con la decisione del giudice di rifiutare la richiesta di compensazione.
Un po’ di storia
A marzo 2019 la nazionale di calcio femminile capitanata da Megan Rapinoe ha fatto causa alla Federazione americana di calcio, guidata al tempo da Carlos Cordeiro, per discriminazione di genere. Secondo le calciatrici, infatti, il team maschile guadagna di più nonostante raggiunga risultati mediocri e generi meno profitto rispetto alle donne. I calciatori, inoltre, hanno accesso ad alberghi e mezzi di trasporto decisamente migliori rispetto a quelli assegnati alla squadra femminile.
I fact-checker del Washington Post e di PolitiFact hanno fatto il punto della situazione per quanto riguarda numeri e bilanci. Tra il 2016 e il 2018 – gli anni quindi in mezzo tra le vittorie femminili ai mondiali del 2015 e del 2019 – la squadra di Rapinoe ha generato entrate per 50,8 milioni di dollari (circa 42,9 milioni di euro), contro i 49,9 milioni degli uomini: le donne hanno quindi portato circa 900mila dollari in più nelle casse della Federazione.
Anche i premi messi in palio dalle competizioni mondiali sono estremamente sbilanciati: 38 milioni di dollari per il campione del mondo maschile, e 4 milioni per quello femminile. Queste cifre però sono stabilite dalla Fifa, e quindi la Federazione americana non ha potere decisionale in merito.
Il nodo principale della questione è nei contratti offerti e firmati dalle due squadre: quella maschile infatti è stata ingaggiata con un modello pay-to-play, secondo il quale i giocatori vengono pagati solo quando effettivamente entrano in campo, con un sistema di bonus generosi che tengono conto del tipo di partita giocata e del campionato di riferimento.
Le donne invece a partire dal 2017 hanno firmato un contatto con una struttura diversa che garantisce un salario base di 100mila dollari all’anno, a cui si aggiungono i bonus per le presenze ed eventuali introiti pubblicitari. Anche con questo sistema, il Washington Post ha calcolato che giocando un ipotetico set di 20 partite amichevoli, e vincendole tutte, la squadra femminile guadagnerebbe comunque circa il 10 per cento in meno rispetto a quella maschile.
È qui che le versioni della squadra femminile e della Federazione prendono strade diverse: secondo la prima, alle giocatrici non è mai stata offerta la possibilità di ottenere lo stesso contratto degli uomini, mentre la Federazione sostiene che la proposta sia stata fatta, ma le giocatrici l’hanno rifiutata a favore di uno stipendio inferiore, ma garantito. Indipendentemente dal numero di partite giocate.
Mancano 66 milioni di dollari all’appello
Con la causa intentata a marzo 2019 le calciatrici hanno chiesto alla Federazione di ricevere compensazioni per più di 66 milioni di dollari, a causa delle discriminazioni subite. A maggio 2020, però, un giudice federale ha dichiarato illegittima la richiesta, sostenendo che alle donne era effettivamente stato offerto lo stesso sistema di pagamento della squadra maschile, ma queste avevano rifiutato.
Il giudice ha invece accettato la denuncia relativa alle condizioni inique per quanto riguarda gli alloggi o i mezzi di trasporto messi a disposizione delle due squadre, e lo scorso aprileè stato raggiunto un accordo che concede alle donne le stesse risorse garantite alla nazionale maschile.
Le calciatrici, però, non si sono date per vinte e hanno fatto ricorso per chiedere di rivedere anche la decisione in merito alla paga.
Un caso sportivo che può fungere da esempio
Nel 2019 l’allora capitana Megan Rapinoe, dichiaratamente omosessuale, dopo essere stata selezionata tra le donne dell’anno dalla rivista Glamour, eha fatto il giro di talk show, notiziari e programmi di intrattenimento insieme alle sue compagne di squadra per sensibilizzare i cittadini rispetto alle conseguenze tangibili del gender pay gap, un problema che non riguarda solo il mondo dello sport.
Nell’Unione europea si stima che la paga oraria delle donne sia mediamente inferiore del 14,1 per centorispetto a quella dei loro colleghi uomini (dati 2019), anche se in Italia la situazione sembra incoraggiante con un divario in riduzione che si attesta a meno del 5 per cento. Negli Stati Uniti invece la differenza è del 16 per cento: per ottenere lo stesso salario, le donne dovrebbero lavorare 42 giorni in più rispetto agli uomini.
Le calciatrici della nazionale americana hanno dimostrato il proprio valore sul campo, ma per milioni di donne la partita più importante è ancora aperta.
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