“Abbiamo realizzato passi avanti modesti”, e a ormai soltanto cinque mesi dalla ventinovesima Conferenza mondiale sul clima della Nazioni Unite (Cop29), prevista a novembre a Baku, in Azerbaigian, “troppe questioni non sono ancora risolte, troppi temi sono ancora sul tavolo”. L’ammissione arriva da Simon Stiell, segretario esecutivo della Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc), al termine della consueta sessione di negoziati di giugno a Bonn, in Germania. Dieci giorni di discussioni che avrebbero dovuto fungere da apripista proprio per la Cop29 e che, invece, si sono conclusi con l’ennesimo risultato deludente.
Simon Stiell: “Troppe questioni ancora sul tavolo”
“Ci resta ancora un lavoro enorme da fare di qui alla fine della conferenza di Baku”, ha aggiunto Stiell, secondo il quale “c’è una montagna molto aspra da scalare se vogliamo sperare in risultati ambizioso a novembre”. I passi avanti, insomma, sono stati davvero troppo pochi, mentre la frustrazione è stata tantissima.
Some developing countries pushed back against what they saw as efforts by rich nations to force them to make bigger cuts in emissions while ducking their own responsibilities to move first and provide more money to help poorer countries adopt clean energyhttps://t.co/aUabVWnCSJ
Quasi incredibilmente – tenuto conto ad esempio delle cifre astronomiche trovate nel giro di pochissimo tempo per sostenere gli aumenti esponenziali delle spese militari in tutto il mondo occidentale – ancora oggi si discute di una promessa avanzata nel 2009 e mai mantenuta per intero. Ovvero i 100 miliardi di dollari all’anno di trasferimenti dal Nord al Sud del mondo, che avrebbero dovuto essere stanziati a partire dalla Cop15 di Copenaghen, quindici anni fa, per consentire ai paesi più poveri della Terra di adattarsi. Un modo anche per indennizzare almeno in parte tali nazioni meno ricche, nettamente meno responsabili delle emissioni di gas ad effetto serra che hanno provocato i cambiamenti climatici.
A dividere è ancora una volta la questione del “chi paga”
Ma di problemi sul tavolo, come sottolineato da Stiell, ce ne sono ancora moltissimi. E il mondo “agisce come se non fossimo in una situazione di crisi climatica”, si rammarica Alden Meyer, del think tank E3G. Una situazione che si riflette nelle 35 pagine preparatorie compilate a Bonn, nelle quali ciascuna nazione sembra semplicemente insistere sulle proprie posizioni. In particolare India, stati arabi e gruppo Africa hanno proposto uno stanziamento tra mille e 1.300 miliardi di dollari all’anno, tra il 2025 e il 2030, per la transizione. Ipotesi rigettata dalle nazioni sviluppate.
L’Egitto ha accusato il mondo ricco di non aver proposto neppure una cifra alternativa. L’Australia ha replicato che “quella rappresenta il puntale dell’albero di Natale: prima bisogna stabilire la struttura e gli obiettivi”. Sui quali non c’è in effetti accordo: non si è trovato un punto d’incontro su quali paesi dovrebbero beneficiare degli investimenti, né sulla provenienza degli stessi (se pubblici, privati, derivanti da tasse o altre manovre). E neppure sulla tipologia di finanziamenti: se si tratterà di donazioni o di prestiti.
“A Bonn molto poco spazio alla questione del come uscire dalle fossili”
In pratica, come ampiamente e facilmente previsto, il linguaggio “fluido” utilizzato alla Cop28 di Dubai sta dando spazio alle più disparate interpretazioni. Di più: Tom Evans dell’E3G denuncia il fatto che “le discussioni a Bonn hanno tacito molto poco spazio al come uscire dalle fonti fossili”. Come sei nel giro di sei mesi il mondo si trovasse di fronte “a un amnesia collettiva”, aggiunge Meyer.
Come se non bastasse, si rimane in una fase di attesa anche sulle nuove Ndc (Nationally determined contributions), ovvero le promesse di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra avanzate da ciascun governo. Ebbene, le due nazioni che in assoluto disperdono nell’atmosfera terrestre la maggiore quantità di CO2, Cina e Stati Uniti, appaiono “in sospeso”. A Washington il risultato delle elezioni presidenziali di novembre potrebbe rappresentare una svolta in negativo, qualora ne risultasse vincitore Donald Trump: colui che nel 2017 fece uscire il proprio paese dall’Accordo di Parigi. E Pechino sembra voglia attendere proprio tale verdetto, per evitare di ritrovarsi da sola a dover fronteggiare impegni ambiziosi dal punto di vista climatico.
Dal G7 nessun annuncio importante sul clima
A completare il quadro è stato infine il summit del G7 ospitato dall’Italia, che è apparso come l’ennesima occasione mancata. I sette governi hanno ribadito l’impegno sulla formula anodina (e appunto interpretabile) del “transitioning away” dalle fossili. “Ma non sono stati definiti piani e scadenze per l’abbandono di petrolio e gas. Anzi, la presidenza italiana continua a fare proprio del gas il centro gravitazionale del Piano Mattei per l’Africa, confermando un approccio di corto respiro alle sfide legate ai rapporti con il continente africano”, ha commentato il Wwf.
Occorre insomma un sussulto, un’accelerazione improvvisa sulla questione climatica. Che però, ad oggi, appare poco probabile.
Finanza climatica, carbon credit, gender, mitigazione. La Cop29 si è chiusa risultati difficilmente catalogabili in maniera netta come positivi o negativi.
Si parla tanto di finanza climatica, di numeri, di cifre. Ma ogni dato ha un significato preciso, che non bisogna dimenticare in queste ore di negoziati cruciali alla Cop29 di Baku.
Basta con i “teatrini”. Qua si fa l’azione per il clima, o si muore. Dalla Cop29 arriva un chiaro messaggio a mettere da parte le strategie e gli individualismi.