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Come le neuroscienze possono aiutare a comprendere (e risolvere) le questioni ambientali
Strobilo è un’azienda che combina neuroscienze e dati ambientali per studiare la relazione tra gli esseri umani e il Pianeta e come migliorarla.
- I comportamenti del nostro cervello in relazione all’ambiente c’entrano con la soluzione ai cambiamenti climatici.
- Comprenderli aiuta a migliorare il presente e progettare un futuro più sostenibile.
- Ci spiega come e perché Andrea Bariselli, psicologo e neuroscienziato fondatore di Strobilo.
Quando qualche anno fa ha fondato Strobilo, lo ha fatto prima di tutto per cambiare la sua vita; in secondo luogo lo ha fatto allo scopo di utilizzare le neuroscienze per riportare l’uomo alle sue antiche radici e fare la differenza salvando il Pianeta. Obiettivo ambizioso? Può essere, ma intanto, Andrea Bariselli, psicologo e neuroscienziato, cerca di fare la sua parte. Ne abbiamo parlato insieme in occasione di Edible planet summit, un vertice sui sistemi alimentari sostenibili che ha riunito 150 esperti da tutto il mondo e a cui era presente anche Nicoletta Crisponi, open innovation& communication manager di LifeGate Way.
Il modello operativo di Strobilo si basa sulla capacità di mettere in relazione all’interno di una piattaforma i dati provenienti dagli esseri umani – recuperati tramite elettroencefalogramma – e i dati ambientali, letti attraverso un device di propria produzione, così da scattare una fotografia dettagliata della realtà, punto di partenza per correggere le anomalie o per riprogettare gli spazi del futuro.
Ci spieghi in poche parole cos’è Strobilo?
Potremmo definirla un’azienda healt&climate tech che utilizza le più avanzate tecniche di neuroscienze per comprendere la relazione che c’è fra noi e l’ambiente. Basandoci su dati ambientali, e non solamente su una stima teorica, generiamo algortimi predittivi in grado di immaginare che tipo di effetto avranno determinati cambiamenti sugli esseri umani. In questo modo possiamo suggerire la direzione verso cui dirottare investimenti che vadano a beneficio nostro e del Pianeta.
Faresti qualche esempio pratico di quello che fate?
Una delle applicazioni più interessanti su cui abbiamo lavorato è l’ambito scolastico. Abbiamo installato in una scuola dei device di nostra produzione che misurano una quindicina di componenti diverse, dalla CO2 fino ai composti volatili, ma anche temperatura e umidità. Non ci siamo limitati a valutare la qualità dell’aria, ma attraverso le tecniche di neuroscienza abbiamo cercato di capire come questa determinasse la capacità di apprendimento dei ragazzi ottenendo informazioni che possono essere utili, per esempio, a chi progetta le scuole.
Quello che stiamo scoprendo, guardando il problema della CO2 dalla nostra prospettiva, sono gli effetti chiamati neurotropici, cioè il decadimento cognitivo che la CO2 provoca sugli esseri umani e che è molto peggio di come ci immaginavamo.
Le tecniche di neuroscienza possono trovare applicazione anche nell’ambito food, per favorire la transizione verso sistemi agroalimentari sostenibili?
Certo, il settore agroalimentare è strettamente legato all’ambiente. Per noi è fondamentale comprendere, per esempio, in che modo possiamo agevolare tutte le pratiche di agricoltura, come quella rigenerativa, in grado di sequestrare carbonio e ridurre l’impatto ambientale.
Con il nostro lavoro, poi, partecipiamo al Mediterranean Mind Lab di Pollica: il nostro ruolo è quello di capire quali sono i fattori endemici della dieta mediterranea che l’hanno resa in qualche modo unica. Non si tratta solo di analizzare i singoli alimenti, ma anche tutto quello che accade a una certa latitudine, con un certo clima e seguendo un certo stile di vita. L’obiettivo è quello di riuscire a esportare questo modello alimentare per replicarlo in un’altra parte del mondo.
Ancora, qualche anno fa, in America, ho condotto dei test su cibi industriali paragonati a quelli non lavorati e coltivati in modo sostenibile. Dai risultati emergeva che il cervello delle persone avesse riconosciuto la qualità superiore dei cibi non processati, freschi, biologici: in questo caso si tratta quindi di rieducare le persone a un gusto contaminato per troppo tempo dal consumo eccessivo di alimenti ricchi di sale, additivi, etc.
Sempre a proposito di food, lo scorso settembre hai partecipato all’evento Edible planet summit, un vertice sui sistemi alimentari sostenibili che ha riunito esperti da tutto il mondo. Su che temi vi siete confrontati?
Abbiamo parlato di tante cose, per esempio del perché la comunicazione dei cambiamenti climatici funzioni poco. Una delle risposte risiede in un meccanismo neurochimico che non ci permette di provare empatia verso noi stessi quando ci immaginiamo nel futuro, in altre parole non posso essere dispiaciuto per me stesso pensandomi fra dieci anni con l’acqua alta mezzo metro in più. È un retaggio biologico che abbiamo e per cui l’immagine di un orso su una lastra di ghiaccio che si scioglie non sortisce un effetto reale in noi. Dunque dobbiamo lavorare su questi meccanismi per generare uno storytelling efficace.
In tema di food security abbiamo discusso di come gli esseri umani funzionano molto meglio in piccole comunità, che non in grossi agglomerati, e quindi del fallimento del sistema città che non riesce a garantire, per esempio, un pasto caldo a tutti una volta al giorno. Nelle piccole comunità c’è un altro livello di solidarietà, di condivisione e di rapporto con l’ambiente esterno.
Un altro problema, secondo me, è proprio che tutti parlano di ambiente, ma molti non trascorrono neanche mezz’ora al giorno all’aria aperta: tante persone vanno in ufficio, leggono libri, partecipano a forum, però al parco non c’è nessuno, nel bosco non c’è nessuno. Dobbiamo sforzarci anche di trovare questa connessione con l’ambiente per provare un vero senso di protezione verso il Pianeta.
Non si tratta però solo di educazione e responsabilizzazione dei cittadini: il tema del contenimento della CO2 contro il riscaldamento globale è centrale, ma intanto l’anno scorso hanno aperto 69 siti di estrazione di fossile con un impatto che nessuno che sceglie di andare al lavoro in bicicletta o di chiudere l’acqua mentre lava i denti può compensare.
Qual è il massimo contributo che sogni di dare alla transizione ecologica attraverso il tuo lavoro?
Mi piace tanto fare “disseminazione”, ovvero raccontare il nostro lavoro, perché anche la scienza, spiegata con un linguaggio semplice, curioso, accattivante, può essere uno strumento per stimolare in qualcuno il cambiamento. Mi piacerebbe che quello che facciamo sia un contributo verso uno sforzo collettivo che va in questa direzione.
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