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Nick Hunt. Andare dove soffiano i “venti selvaggi” mi ha insegnato ad essere schietto riguardo a ciò che provo
Lo scrittore Nick Hunt ci ha raccontato il suo incredibile viaggio all’inseguimento dei venti più famosi d’Europa.
“La risposta soffia nel vento”, così cantava Bob Dylan nell’indimenticabile Blowin’ in the wind. E forse è proprio quella risposta che Nick Hunt stava cercando quando ha deciso di attraversare l’Europa per seguire il percorso dei venti. O forse perché da piccolo il vento l’ha quasi portato via, e per molti anni una parte di sé “ha segretamente desiderato che lo avesse fatto” e l’avesse condotto “fino in Irlanda, Francia, America, Islanda, il Circolo artico o uno degli altri posti meravigliosi in attesa nel vasto mondo”.
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Per Hunt, scrittore britannico che collabora con importanti testate giornalistiche ed è tra i fondatori del Dark mountain project, viaggiare non è soltanto un piacere, ma una vera e propria necessità. Anche questa volta è partito per seguire un percorso che nessuno aveva osato prima d’ora, lasciandosi letteralmente trasportare dal vento. Così è nato il libro Dove soffiano i venti selvaggi. Un viaggio all’inseguimento di Helm, Bora, Föhn e Mistral.
Non potrebbe esserci lettura migliore nella Giornata mondiale del vento, che ha l’obiettivo di ricordarci le sue potenzialità: il vento, da solo, può fornire al mondo tutta l’energia di cui ha bisogno, e anche di più. Questa grande forza, Hunt l’ha percepita con tutte le fibre del suo corpo. Il suo viaggio ci porta in terre aspre e incontaminate, ma anche in paesini pittoreschi e ricchi di storia; lungo il percorso incontriamo persone, animali, possiamo quasi avvertire la fatica dopo ore di cammino, la pelle tesa e arrossata dal vento. E scopriamo leggende, tradizioni, ma soprattutto da quanto tempo l’uomo sa di avere un legame inestricabile con la natura.
Qualcuno, leggendo Dove soffiano i venti selvaggi, potrebbe dirti: “Sei pazzo. Chi te l’ha fatto fare”? Cosa risponderesti?
Molte persone trovano strano andare in posti ventosi. Il vento è visto come qualcosa di fastidioso o pericoloso. Penso che il fascino dei nomi sia stata la prima cosa ad avermi attratto, l’aura fiabesca che li avvolge: Bora, Helm, Föhn, Scirocco… Suonavano come un invito all’avventura, ad andare in quei posti.
Nel primo capitolo dici: “Ero venuto per restare solo con il vento e in assenza di vento ero semplicemente solo”. Cosa significa viaggiare da soli?
Penso ci sia una differenza fondamentale tra sentirsi soli ed essere soli. Sentirsi soli è una cosa negativa, stare da soli è qualcosa di diverso. Per me, essendo uno scrittore, è molto importante: camminare e scrivere hanno ritmi che si sposano alla perfezione. Non è detto che abbia idee migliori quando sono da solo, ma è più probabile: camminare aiuta a meditare, è meglio che stare seduti a fissare lo schermo del computer.
Nel libro c’è anche molto silenzio. Che musica assoceresti al rumore del vento?
Wow, è una domanda difficile. Sono tante le canzoni richiamate dal vento. Alcune non riuscivo più a togliermele dalla testa (ride). Il Mistral, che soffia nel sud della Francia, è anche conosciuto come “il vento dell’idiota”: c’è una canzone di Bob Dylan che si intitola proprio “Idiot wind”. Non so se si riferisca al Mistral, ma le sue parole continuavano a risuonarmi in testa: “vado verso sud, passando per le stradine”. Era perfetta.
Te l’avranno già chiesto, ma qual è il tuo vento preferito? E quale delle persone che hai incontrato, invece, ti ha più colpito?
[Attenzione spoiler] Sembrerà che lo dica perché sono in Italia, ma il mio vento preferito è la Bora. Per tre settimane non sono riuscito a trovarla, credevo di non farcela, ma alla fine è arrivata. È una bella storia da raccontare. La Bora porta con sé una luce magnifica, e poi a me piace il freddo quindi mi ha fatto sentire a mio agio e pieno di energia.
La persona che più mi ha colpito è Tomaš: quando mi sono perso sulle montagne della Croazia, e mi trovavo potenzialmente in una bruttissima situazione, mi ha praticamente salvato. È una persona squisitamente eccentrica e generosa: si è assicurato che arrivassi al rifugio, mi ha presentato i suoi amici un po’ folli, mi ha dato da mangiare e del vino da portare con me – non ne avevo bisogno, ma è stato un bel gesto.
I leave Trieste as an Ambasciatore Eolico (Wind Ambassador) and proud owner of a Bora in Scatola (Canned Bora). Grazie mille @MuseoBora e buon vento! pic.twitter.com/RxcP4DKaqF
— Nick Hunt (@underscrutiny) 2 giugno 2018
Citando le tue parole, consideri il mondo “un’entità che vive e respira”: questo influenza il tuo modo di scrivere, ricco di metafore tratte dal mondo animale e vegetale, ma quali sono le conseguenze più profonde?
Penso sia una questione di spiritualità. In inglese, “spiritualità” non è un termine attraente: viene associato ad un contesto religioso, oppure new age e un po’ hippy; è un concetto vago. È una parola che mi ha sempre intimorito leggermente, ma questo libro mi ha aiutato ad esprimere questo sentimento, l’idea che il mondo sia interconnesso. La connessione fra venti, spiriti, dei e fantasmi è molto antica e presente in diverse culture. Questo libro mi ha aiutato ad essere schietto riguardo a ciò che sento, invece di provare a mascherarlo con dello humor o dell’ironia, o qualunque altra cosa. L’ho vissuto come un invito a essere più onesto.
Racconti che “il Mistral gioca un ruolo importante, asciugando l’erba ed eliminando i microbi, il che significa che non sono necessari conservanti né pesticidi”: per questo parli di “biologico certificato dal vento”?
Sì, esatto: anche in Svizzera mi hanno detto che non hanno bisogno di utilizzare pesticidi nei vigneti grazie al Föhn.
Già nel primo capitolo Peter Brown ti racconta che “è da tanto che non deve grattare via il ghiaccio dal parabrezza, o spalare la neve dal vialetto. Un cambiamento c’è stato di sicuro”. Possiamo pensare che questo cambiamento sia dovuto al riscaldamento globale? Ci sono delle conseguenze anche sui venti?
Sì. La climatologia è una scienza davvero complicata, quindi ho pensato di non scendere troppo nei dettagli, ma l’ho fatto attraverso gli aneddoti e le parole delle persone che ho incontrato. Tutti dicono che il clima è diverso rispetto a come lo ricordano, o a come lo ricordano i loro nonni. La gente sa che è vero. E chiaramente se il clima cambia, anche i venti cambieranno, perché sono le temperature a determinare ciò che fanno e la direzione in cui soffiano. In Provenza ho sentito di un villaggio dove non c’era il Mistral, poi 15 anni fa è arrivato, quindi le cose sono cambiate in tempi recenti. Penso che qualunque scrittore che non ha questa consapevolezza nel suo background non sia onesto o voglia negare quello che sta accadendo; sempre più autori, che non necessariamente parlano di cambiamenti climatici, comunque ne sono influenzati. È inevitabile: è come scrivere all’ombra di una guerra o di qualche altro grosso disastro.
Cinque anni fa hai scritto un bellissimo articolo sulla triste evoluzione dell’Everest in una discarica. Oggi, in diverse località viene impedito o regolato l’accesso ai turisti. Per visitare l’arcipelago di Palau, bisogna promettere di rispettare l’ambiente. Quanto pensi sia aumentata la consapevolezza in questo senso, e qual è la tua idea di viaggio sostenibile?
È una domanda molto difficile. C’è differenza tra consapevolezza e fare le cose in modo diverso. Penso che tutti provino una sorta di negazione: credono di essere diversi, che le colpe appartengano agli altri, quando in realtà non è così. Da scettico potrei dire che il turismo sostenibile sia diventato un nuovo business, di certo più attraente ma comunque basato sul denaro. Chiaramente volare – cosa che ho appena fatto – è terribile, ma spostarsi in nave ha un contributo altrettanto negativo sul riscaldamento globale. Non resta che andare a piedi, insomma (ride). Compensare le proprie emissioni piantando alberi è sicuramente meglio di niente, ma sembra più un modo per lavarsene le mani e sentirsi a posto con la coscienza.
Negli ultimi cinque anni l’interesse per le camminate e la bicicletta è cresciuto parecchio, e di questo tipo di viaggi si scrive molto. Quindi certo, penso che ci sia maggiore consapevolezza, ma il problema delle mode è che prima o poi passano di moda. Detto questo, è sicuramente d’aiuto il fatto che le persone siano entusiaste e curiose riguardo a queste modalità di viaggio e capiscano che ci sono modi alternativi di fare le cose. Che fanno bene non solo all’ambiente, ma anche a noi stessi. Ecco che stiamo tornando a questa vecchia tecnologia, i nostri piedi.
Il Dark mountain project affronta questi temi, giusto? Spiegaci meglio.
Ho lavorato al Dark mountain project sin dal primo numero, circa dieci anni fa. È un po’ quello che spiegavo prima, dello scrivere con la realtà dei cambiamenti climatici in testa: si tratta di essere onesti riguardo a quello che sta accadendo nel mondo. Spesso c’è questo bisogno di essere speranzosi, positivi e fiduciosi riguardo al futuro, e l’essere dubbiosi riguardo all’avanzata del progresso è visto con sospetto. Ciò che ha fatto Dark Mountain prima che altri cominciassero a farlo è stato domandarsi: “Perché non ammettiamo di essere disperati per quello che sta accadendo al pianeta, dall’estinzione ai cambiamenti climatici, e così via? Perché non smettiamo di fingere che andrà tutto bene”? Sembra una posizione senza speranza, in realtà mi ha dato una speranza molto più profonda. Credo che tante altre persone coinvolte nel progetto la pensino allo stesso modo, perché ha permesso loro di parlare onestamente.
Ci sono tantissimi scrittori di viaggi. Qual è il segreto per essere diversi e qual è il consiglio che daresti ai giovani giornalisti in particolare?
Probabilmente, non tentare di essere diversi. Se volete scrivere di viaggi, viaggiate nei posti che vi interessano, con i quali sentite di avere una connessione. Sono diventato uno scrittore di viaggi per sbaglio, se devo essere sincero: ho fatto una camminata a Istanbul, perché sentivo che altrimenti sarei morto con il rimpianto. Quindi non avevo scelta, diciamo, e da lì è nato un libro. Il mio suggerimento è di seguire il cuore, lo so che sembra un cliché, ma è vero. E non è necessario andare in posti esotici, perché c’è meraviglia, bellezza e unicità in ogni luogo.
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