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Chi è Nicolò Govoni, il giovane italiano che potrebbe ricevere il Nobel grazie al suo impegno per i bambini profughi
Dal volontariato in India alla fondazione della ong Still I rise, fino alla candidatura al premio Nobel per la Pace. L’intervista a Nicolò Govoni, il ventisettenne italiano che da anni si batte per assicurare l’educazione all’interno dei campi profughi.
Si chiama Beraber, cioè “insieme” in turco, così come mazì significa “insieme” in greco. Perché è proprio così – insieme – che Nicolò Govoni, tutto il team di Still I rise e i bambini che stanno aiutando hanno costruito quello che ha tutte le carte in regola per diventare un impero. Cioè un modello basato sull’educazione e sulla protezione dei minori rifugiati, attraverso la costruzione di scuole in prossimità dei campi profughi.
E se Mazì, aperto nell’agosto 2018 a pochi passi dall’hotspot di Samos, in Grecia, è stato il primo centro giovanile dell’isola a rappresentare un porto sicuro e a offrire un programma scolastico informale ai bambini che vivono nell’orrore del campo, Beraber è la struttura che tra sei mesi diventerà la prima scuola internazionale per profughi a Gaziantep, l’ultima città turca prima del confine siriano.
In questi tempi bui, caratterizzati dall’emergenza coronavirus, è una notizia che scalda il cuore, ma che non può nascondere il sudore, le battaglie, la fatica, le notti insonni che tutto questo ha comportato. “In quanti ci avevano detto: ‘È impossibile’? Tanti, tantissimi, ormai ho perso il conto. Pure il sonno, ci ho perso, e spesso – racconta Govoni –. Ma c’è una cosa che noi non abbiamo mai perso, anche davanti alle difficoltà più gravi: la speranza”.
Nicolò Govoni e Still I rise
Originario di Cremona, 27 anni appena compiuti, Nicolò Govoni è quel ragazzo che a vent’anni abbandona la sua vita di agi, si rimbocca le maniche e vola come volontario – inizialmente come “volonturista”, come dirà poi lui stesso – in India, in un piccolo villaggio dove è situato l’orfanotrofio Dayavu Boy’s home. È convinto di trattenersi solo qualche mese ma lì, alla fine, rimane per quattro anni, riuscendo a promuovere la costruzione di un nuovo dormitorio, evitare la chiusura della struttura e avviare un fondo per l’educazione, mandando i più piccoli a scuola e i più grandi all’università. Tra le altre cose, si laurea, diventa giornalista e scrive un libro, Bianco come Dio, in cui racconta la vita nell’orfanotrofio. Il ricavato viene interamente devoluto alla costruzione di una biblioteca a Dayavu Boy’s home.
Solo con la certezza di aver creato stabilità, lascia l’India per un breve passaggio in Palestina, prima e a Samos, in Grecia, poi, dove si trova uno degli angoli più disumani d’Europa. Qui si ferma e a maggio 2018 fonda, insieme alle volontarie Sarah Ruzek e Giulia Cicoli, l’onlus Still I rise che, nel nome, si ispira alla poesia di Maya Angelou: un inno contro il pregiudizio, le ingiustizie e le discriminazioni. La ong, internazionale e indipendente, punta tutto sull’educazione, sulla sicurezza e sulla protezione dei minori attraverso la costruzione di scuole, che possano essere anche un rifugio per tutti quei bambini che nei campi profughi sono costretti a rimanere per anni. Ecco che nasce Mazì. E poco dopo Beraber, in Turchia. Ma non è finita: in programma ci sono altrettante strutture in Kenya, Messico e Italia.
You may shoot me with your words, you may cut me with your eyes, you may kill me with your hatefulness, but still, like air, I’ll rise.Maya Angelou
Ecco perché non stupisce la candidatura di Govoni al premio Nobel per la Pace del 2020, proposta da Sara Conti, membro del Consiglio grande e generale della Repubblica di San Marino, per il suo impegno a favore dell’educazione e della protezione dei bambini rifugiati. Perché, come dice lui stesso, “una persona alla volta, un sorriso alla volta: è così che si cambia il mondo”.
Com’è la vita nel campo di Samos?
È inumana. Più di settemila persone sono costrette a vivere in un campo che è programmato per 650. I disagi sono evidenti: circa il 70 per cento dei profughi vive nelle tende – che oltretutto si sono comprati da soli – in quella che loro chiamano “giungla”. Un zona in cui non c’è acqua corrente, elettricità, servizi igienici, supervisione della polizia. Solo sul perimetro del campo ci sono i container, cioè gli alloggi “ufficiali”, dove le cose non vanno molto meglio. C’è un sovraffollamento incredibile.
Questa è gente che ha le difese immunitarie basse, è debole. Se il coronavirus arrivasse nel campo, sarebbe un vero massacro. Pare ci siano dei casi a Moria, l’hotspot di Lesbo, dove stanno 27mila persone: vuol dire che già centinaia potenzialmente ce l’hanno. Non è nemmeno più una questione di “se” o “quando”: è già qua. Stiamo collaborando con l’ospedale di Samos – considera che è al pari di un ospedale indiano pubblico, cioè terribile –, per lanciare eventualmente una raccolta fondi. Dobbiamo capire come destinarla, qual è il modo più efficiente.
Si ha la tendenza ad associare il volontariato sempre a qualcosa di positivo, però tu stesso hai detto che ha anche un lato oscuro. Qual è?
Viene chiamato “volonturismo”, cioè il volontariato visto come esperienza di gratificazione personale, anziché di aiuto umanitario vero e proprio, molto spesso a pagamento. Sono tutti quei ragazzi che partono con le migliori intenzioni per fare un’esperienza formativa, ma che poi si affidano a organizzazioni che non si propongono nemmeno come organizzazioni umanitarie, bensì offrono una sorta di viaggio all’estero, che poi prende la forma del volontariato ma, di fatto, solo di facciata.
Io stesso ho fatto volonturismo all’inizio e online ci sono tantissime storie assurde. Una ragazza racconta di quando è andata in Tanzania, dove il suo compito, insieme al resto del team, era quello di costruire una scuola, previa nessuna conoscenza della muratura o di come si costruisca un edificio. Stando a quanto dice, di giorno i volontari mettevano giù i mattoni, procedevano con la costruzione e di notte la gente del posto smantellava quello che loro facevano e lo ricostruiva in modo che poi non gli cadesse in testa.
È assurdo, ma la cosa ancora più assurda è che di queste cose non si parli nemmeno. In generale funziona più o meno così: c’è un grande ombrello di organizzazioni internazionali che connettono i ragazzi che vogliono fare volontariato alle realtà locali. Queste, in cambio di una percentuale di quello che i ragazzi pagano per l’esperienza, se ne fanno carico. Ed è un business gigantesco.
Una persona alla volta, un sorriso alla volta: è così che si cambia il mondo.Nicolò Govoni
Voi di Still I rise, invece, promuovete quello che hai definito il “volontalento”, cioè una selezione a priori dello staff.
Il volontariato etico deve partire dal bisogno espresso dalla popolazione che si va ad aiutare. Poi si deve mettere in atto un’azione che sia volta alla soddisfazione di questo bisogno, a partire dalla selezione del personale, esattamente come se fosse un lavoro strapagato. Le persone che vengono qui devono già saper fare, non siamo noi a insegnare loro qualcosa che non sanno fare. Che è esattamente il meccanismo su cui si basa il volonturismo: io vado a lavorare gratis e loro mi insegnano qualcosa. Assolutamente no. Poi si devono superare degli screening, che riguardano per esempio la fedina penale, e dopo il colloquio si fa training, prima online e poi sul campo.
Hai incontrato ostacoli in questi anni?
A monte della nascita di Still I rise ci sta il fatto che noi – e parlo anche degli altri cofondatori Giulia e Sara – abbiamo cominciato da volontari con un’organizzazione locale a Samos e con l’ingenua convinzione che le autorità appuntate per svolgere un determinato compito fossero effettivamente preparate per quel compito. C’erano problemi giganteschi in quel campo, tra cui la protezione all’infanzia, per cui c’era un ente preposto. Noi ci approcciammo a questo ente perché facesse ciò che era incaricato di fare. Ma non lo fece. E sai perché? Perché le persone che erano incaricate di farlo non erano competenti, erano troppo giovani e senza esperienza per affrontare un compito così delicato. In più erano sottostaffati, c’erano pochi fondi, mancava una struttura organizzativa adeguata. Allora lì abbiamo aperto gli occhi.
Un grande ostacolo è stato quello di confrontarsi con delle autorità che di fatto avevano il potere decisionale, ma non la capacità tecnica e la volontà di esercitarlo. E Still I rise è nata proprio per questo, perché fosse un’alternativa al fallimento del sistema. Più volte abbiamo tentato di intercedere con le autorità anche in contesti ufficiali. Mancava la volontà? Allora abbiamo creato una struttura che potesse ovviare al problema. Pian piano abbiamo espanso il nostro servizio: all’inizio era soltanto un’offerta educativa, poi anche alimentare, sanitaria, legale in certi casi. È diventato qualcosa di olistico.
Ci sono tanti posti in cui ci sarebbe bisogno di iniziative come quelle che state portando avanti con Still I rise – penso al Bangladesh per esempio –: qual è il criterio con cui scegliete i luoghi in cui operare?
Noi siamo a Samos in risposta a un bisogno che ci siamo trovati davanti. Poi ci siamo espansi e ora siamo in Turchia e in Kenya. La struttura di Samos, però, non è una scuola internazionale e non lo sarà mai, perché il contesto è troppo volatile – la gente sta nel campo uno o due anni e poi viene spostata anche in dodici ore –. Mazì è un centro di educazione, ma la nostra sfida adesso è una scuola internazionale per profughi, che è un concetto che ancora non esiste. Questo si traduce in educazione di alta qualità, scuole elitarie con diplomi riconosciuti in tutto il mondo per bambini che non hanno diritti e, soprattutto, che non potrebbero mai permettersele.
Per offrire un’opportunità del genere ci vuole un contesto più stabile di Samos. Facciamo ancora educazione di emergenza, ma in luoghi in cui è necessario che la gente rimanga. Il corso di studi che offriamo è un corso di sette anni e l’obiettivo è quello di restituire il diritto alla scelta: i ragazzi devono essere formati e ottenere quel pezzo di carta che permetta loro non solo di avere l’opportunità, ma anche di scegliere in quale tra le migliori università al mondo andare, con borsa di studio. Per questo è necessario che siano luoghi in cui i profughi stanno e si ritrovano a vivere a lungo termine. Ecco perché Gaziantep. La Turchia è un paese sicuro, è il paese con il più alto numero di profughi – sono quattro milioni ora – e la gente vive sì situazioni di disagio, ma si tratta di un disagio sopportabile. Parliamo comunque di lavoro minorile: a Gaziantep il tasso di occupazione dopo i dieci anni di età sfiora il 90 per cento. È una follia. Però è anche vero che la gente non è sotto le bombe e nemmeno vive in tenda, quindi rimane.
Il Kenya poi è il paese più stabile dell’Africa del nord-est ed è anche il luogo in cui tutte le ong internazionali che operano sul continente si basano per le loro operazioni. Ci sono quindi centinaia di migliaia di profughi dal Sudan, dall’Etiopia, dalla Somalia. A volte rimangono per generazioni: ci sono questi campi profughi enormi in cui si nasce e si muore. Il Bangladesh potrebbe essere un luogo papabile, bisogna fare un’analisi accurata. È anche importante che i paesi siano in grado di “allacciarsi” ad altri: quando portiamo i ragazzi a prendere il diploma poi è cruciale che vengano messi in collegamento con chi ha delle opportunità da offrire loro.
Veniamo ora alla nomina per il premio Nobel per la Pace: in quale misura pensi che, qualora lo vincessi effettivamente, il premio ti potrebbe aiutare nella tua missione?
Ovviamente aiuterebbe tantissimo, però penso che non lo vincerò. Il premio, di quasi un milione di euro, permetterebbe l’apertura di almeno dieci scuole in altrettanti paesi; poi essendo il Nobel di grandissimo prestigio ci aiuterebbe con le donazioni. Come forse sai, noi rifiutiamo le donazioni istituzionali, accettiamo solo quelle spontanee. Potremmo avere più fondi per effettuare operazioni con più scioltezza e meno paura per quanto riguarda l’implementazione. E poi rafforzerebbe le nostre fondamenta per le interazioni con le autorità in qualsiasi paese. Siamo una piccola ong ancora e a volte facciamo fatica a interfacciarci con le autorità perché magari ai loro occhi siamo poco credibili. Se avessimo una reputazione più forte a livello internazionale, sarebbe sicuramente più facile.
In un’intervista hai detto che se tu potessi scegliere a chi assegnare il premio Nobel per la Pace, lo daresti agli abitanti di Hong Kong. Come mai?
Perché stanno lottando tutti i giorni, anche con il coronavirus sono fuori a protestare, contro un avversario che è temibile, noto per far sparire la gente e per silenziare il dissenso nei modi più draconiani. Questa gente sta protestando senza sosta da nove mesi senza l’aiuto di nessuno. Poi mi piace molto che siano una collettività, lo trovo molto nobile. Non è un solo volto, dunque si scevra di tutta quella parte di ego e di immagine legata al singolo. E poi sono l’incarnazione della libertà.
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Anni fa sei riuscito a finanziare parte dei tuoi progetti proprio grazie ai libri che hai scritto. Ora stai pensando a qualche storia da mettere nero su bianco?
Ho un contratto con Rizzoli per un terzo libro, però ho voluto essere molto fermo su un punto: se ne parla nel 2021. L’anno scorso, mentre scrivevo l’ultimo libro, ho fatto molta fatica perché in contemporanea c’era la gestione di Mazì. Mi sono reso conto che una cosa toglieva all’altra. Mi piacerebbe che il prossimo libro io possa scriverlo senza sentirmi in colpa per aver tolto tempo ai bambini o all’organizzazione.
È anche vero che qualcosa dovrò scrivere perché Nicoletta Novara, una delle coordinatrici di Still I rise, ha creato una mostra dando le macchine fotografiche ai bambini di Mazì e questa mostra non solo è andata un po’ in giro per il mondo, ma è pronta per diventare anche un libro fotografico. Io scriverò una sorta di favola introduttiva. Quindi vedi che alla fine mi sono ritrovato con qualcosa da scrivere.
Hai qualche rimpianto?
Mah, ti dirò, assolutamente no per il momento. Still I rise è proprio l’amore della mia vita, mi rende molto felice, se non tutti i giorni, molto spesso. Sono entusiasta di fare quello che stiamo facendo.
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