Oltre alle proteste in Nigeria, anche la Guinea Conakry e il Camerun sono sconvolti dall’impunità con cui agiscono le forze di sicurezza. E la distanza tra popolazione e governi aumenta spaventosamente.
Nella serata del 20 ottobre una folla di giovani sta manifestando al casello autostradale di Lekki, a Lagos, in Nigeria. Lo slogan #EndSars viene urlato ad alta voce da un microfono, mentre i partecipanti siedono per terra. Da settimane sono in corso proteste pacifiche. La piazza chiede la dismissione della Sars, Special anti robbery-squad, un’unità speciale della polizia nigeriana accusata di uccisioni arbitrarie, furti, estorsioni e torture di ogni tipo nei suoi diciotto anni di vita.
L’arrivo di un’unità dell’esercito nigeriano non scompone la manifestazione. Philip Agu, un ingegnere elettronico che ha aiutato a montare il sistema audio, racconta al New York Times che il portavoce della protesta aveva affermato: “Nessun soldato sparerà su un cittadino inerme con la bandiera del proprio paese stretta al petto”. Tre ore più tardi alcuni membri delle forze di sicurezza aprono il fuoco contro i manifestanti. È un massacro. Amnesty International conta almeno 10 vittime, mentre le autorità statali prima negheranno, poi ammetteranno la morte di sole due persone.
Opening fire on peaceful protesters is a blatant violation of people’s rights to life, dignity and freedom of expression. The #Lekki massacre must be investigated. #EndSARSpic.twitter.com/lz1O7bkCpN
Guinea Conakry: la reazione violenta delle forze di sicurezza
A Conakry, in Guinea, quasi duemila chilometri a ovest da Lagos, la città è tappezzata di cartelloni elettorali. L’immagine del presidente Alpha Condé su sfondo giallo ritratto sorridente con alle spalle un arcobaleno, simbolo del partito Rassemblement du peuple de Guinée (Rpg), è ricorrente. Boubacar Baldè guida la sua moto attraverso venditori ambulanti e voragini nell’asfalto. Sangoya, Tomboleya, Kokoma: i distretti di Conakry si alternano lungo l’arteria principale della città.
È qua, soprattutto nelle periferie, che l’azione del Fndc, il Fronte nazionale per la difesa della Costituzione (Front national pour la défense de la Constitution) nato nell’ottobre del 2019, si fa più estesa. In questi quartieri ragazzi come Boubacar tengono riunioni e diffondono idee sull’importanza della difesa di una costituzione nata nel 1989, ma parzialmente applicata solo nel 2010 dopo la morte del dittatore Lassana Contè e della giunta militare.
La decisione di Alpha Condé di riformare la costituzione per potersi presentare per un terzo mandato presidenziale ha spinto centinaia di ragazzi come Boubacar in strada. Una scelta politica che ha aperto un vaso di Pandora fatto di scontri e tensione sociale. I mesi tra gennaio e marzo 2020 sono stati i più duri. La Guinea è stata al centro di tumulti e proteste. La reazione delle forze di polizia contro i manifestanti è stata dura. Sulle strade, oggi bagnate dalla pioggia, tra ottobre 2019 e luglio 2020 sono state uccise almeno 50 persone secondo i dati forniti da Amnesty International.
Il 16 ottobre, due giorni prima delle elezioni, Boubacar segue i compagni nel giro di sensibilizzazione. Nell’aria c’è l’idea di una nuova manifestazione tesa a bloccare l’N1, la strada a percorrenza veloce che taglia la città. Nel cortile di una casa del quartiere di Matam, una trentina di persone ascoltano il discorso accurato di Mamadou Billo Bah, attivista del Fndc e amico di Boubacar. “Siamo pronti a tutto. Siamo pronti ad essere arrestati, a subire violenze, perfino a morire. Perché la nostra vita dovrebbe valere più di quella di chi l’ha già persa negli scorsi mesi?” Le parole dell’attivista guineano si intervallano con la pioggia, ormai copiosa, che batte sul tetto di lamiera. “Ormai sappiamo di avere a che fare con un dittatore”, conclude il giovane membro del Fronte nazionale.
La lunga storia di violenze impunite in Guinea Conakry
Billo, come Boubacar, ha sperimentato in prima persona la repressione delle forze di sicurezza. Ma le violenze, e la relativa impunità, con cui si muovono polizia e gendarmeria non sono nuove in Guinea.
Era il 28 settembre 2008, al potere c’è la giunta militare presieduta da Dadis Camara. In uno stadio della capitale, oggi denominato “28 settembre”, migliaia di persone si sono riunite dopo una marcia pacifica organizzata contro l’intenzione del capo della giunta di candidarsi alla presidenza. Mancano pochi minuti a mezzogiorno. Le forze di sicurezza puntano i fucili contro i manifestanti. Il risultato sarà una carneficina: 150 morti e lo stupro di decine di donne. Dopo il massacro le forze di sicurezza organizzano un’operazione di insabbiamento. Sigillano tutti gli ingressi, rimuovono i corpi e li seppelliscono in fosse comuni, alcune ancora da identificare.
Ancora oggi le associazioni delle vittime chiedono giustizia, nonostante l’istituzione nel 2018 da parte dell’allora ministro della giustizia Cheick Sako di un comitato direttivo per organizzare il processo, e dell’annuncio nel gennaio 2020 del ministro della Giustizia Mohammed Lamine Fofana alle Nazioni Unite per il sostegno “inequivocabile” del suo governo all’apertura del procedimento.
Un silenzio profondo che abbiamo testato in prima persona. Nonostante le autorizzazioni ufficiali in nostro possesso, con accredito stampa al ministero della comunicazione, non ci è stata data la possibilità di filmare o scattare foto allo stadio. I responsabili della struttura non hanno voluto rispondere alle nostre richieste, o a quelle delle autorità competenti per i giornalisti stranieri, minacciandoci.
Le proteste post voto costano la vita ad almeno 21 persone
La mattina successiva alla tornata elettorale, il 19 ottobre, Conakry si sveglia placida. Nulla fa presupporre ciò che avverrà nelle ore successive. Nel pomeriggio Cellou Dalein Diallo del partito d’opposizione Ufdg, l’unione delle forze democratiche di Guinea, sfidante del Presidente Condé proclama vittoria nonostante il conteggio sia ancora in corso, le persone si riversano in strada. Si festeggia, si canta, si balla. In serata l’entusiasmo generale cambia volto. Le forze di sicurezza intervengono in diverse parti della città.
Le immagini dell’uso di armi da fuoco da parte della polizia si diffondono su Whatsapp, generando rabbia. Stando alla rete televisiva statale, saranno 21 i morti, mentre l’opposizione parla di almeno 30 persone uccise. Un bollettino che si aggrava nei numeri con centinaia di persone ferite e un numero imprecisato di manifestanti o sospetti manifestanti arrestati. Boubacar Baldè si trova su questa lista. Il 22 ottobre una pallottola lo colpisce in pieno petto vicino alla sua abitazione. Muore a 28 anni.
Il caso del Camerun: uso della forza e arresti arbitrari
Spingendosi ad ovest, stretta tra le foci dei fiumi Dibamba e Wouri, si adagia Douala, città costiera del Camerun. Qui il 22 settembre centinaia di persone si sono radunate pacificamente per protestare contro l’organizzazione delle elezioni regionali di dicembre e per chiedere una risoluzione al conflitto che imperversa nelle regioni anglofone. La polizia e la gendarmeria hanno risposto con gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e arresti.
Le operazioni antiterroristiche in Camerun fungono da ombrello per una violenza dilagante e impunita in diverse regioni del Paese
Il Camerun è un Paese instabile. I tre fronti del conflitto, a Nord con Boko Haram, a sudest nelle regioni anglofone, in cui movimenti separatisti richiedono l’autonomia, e ad ovest con i ribelli provenienti dalla Repubblica Centrafricana, hanno acuito una situazione in cui i diritti umani erano già poco tutelati. Se, a causa di un governo autoritario trentennale retto dall’87enne Paul Biya, protestare in passato era rischioso, oggi sotto l’ombrello delle operazioni antiterroristiche può costare ancora di più.
“I fatti di Douala non sono nuovi. È successo altre volte che le forze di sicurezza abbiano usato la violenza per disperdere proteste pacifiche”, Ilaria Allegrozzi, Human Right Watch (Hrw), si occupa di Camerun da diversi anni. “L’anno scorso sono stati arrestati i vertici del partito di opposizione Movimento per la rinascita del Camerun (Mrc), tra cui il leader Maurice Kamto”. Nel Paese, straziato da stragi e conflitti, si delinea la tendenza a voler silenziare qualsiasi voce di opposizione o dissidenza. “In questa situazione anche i giornalisti pagano un prezzo molto alto. Non riescono a coprire ciò che accade oppure sono costretti all’autocensura”, continua la rappresentante di Hrw. “Dopo il 22 settembre sono stati arrestati e hanno subìto percosse anche giornalisti di testate internazionali”.
Uno dei luoghi che evoca più spettri legati alla violenza arbitraria e all’impunità delle forze di sicurezza è il SED, Secrétariat d’État à la défense, la segreteria di Stato per la difesa, a Yaoundé. Nei suoi scantinati, stando ai rapporti dettagliati di Hrw, si consumano torture su detenuti che non hanno avuto regolare processo. In questo centro di detenzione non ufficiale vengono portati sospetti separatisti legati al movimento secessionista dell’Ambazonia oppure sedicenti terroristi. Il tutto in modo informale.
La situazione degenera più ci si allontana dalla capitale
Ma le violenze non si fermano alla capitale. Anzi, più ci si avvicina alle aree di crisi, più aumentano i casi. E mentre in Guinea Conakry il legame tra militari e governo non è così solido, il caso dell’ammutinamento del 16 ottobre a due giorni dalle elezioni ne è prova; in Camerun il presidente Biya ha sotto il suo controllo un intero reparto dell’esercito. Il Bir, battaglione d’intervento rapido, risponde infatti alla massima carica dello Stato, mentre è gestito sul campo da un ex ufficiale israeliano. Su questo punto numerose inchieste hanno aperto dubbi sul rapporto tra Tel Aviv e il dittatore di Yaoundé. Ma ancora più sconcertanti sono i metodi usati da questo reparto speciale. Utilizzato nel nord per combattere Boko Haram e nelle zone anglofone per reprimere la deriva separatista, il Bir si è macchiato di numerosi crimini, tra cui torture, omicidi extragiudiziali e massacri. Uno scandalo planetario che nel 2019, anche grazie ai report di Amnesty International, è costato al reparto l’assistenza militare statunitense.
I massacri di Ngarbuh e di Kumba hanno stimolato una nuova coscienza in Camerun
Eppure in un contesto di impunità e silenzio che favorisce nuove violenze, per le strade delle città camerunesi si cominciano a vedere i segnali di una stanchezza profonda. Le persone scendono in piazza, consapevoli dei rischi. Alla base di una rinnovata coscienza ci sono forse due episodi di sangue recenti che hanno attirato anche l’attenzione internazionale. Il 14 febbraio uomini delle forze governative e reparti civili armati di etnia Peul sono entrati nel villaggio di Ngarbuh, uccidendo 21 persone, tra cui 13 bambini e una donna incinta. Stando alle informazioni raccolte da Hrw tra le forze di sicurezza c’erano anche uomini del Bir.
L’ultimo episodio che ha sconvolto l’opinione pubblica camerunese è invece quello del 24 ottobre, dove una decina di uomini civili armati sono entrati in una scuola di Kumba e hanno ucciso 7 bambini, ferendone altri 13. Un fatto che non ha ancora un responsabile chiaro e dove le parti in causa, autorità di Yaoundé e separatisti dell’Ambazonia, continuano a rimbalzarsi le accuse.
Dalla Guinea, alla Nigeria, passando per il Camerun si palesa una spinta verso un cambiamento. Un impulso a far valere i propri diritti, spesso calpestati, che siano di natura economica, civile o politica. In questo spazio che si affaccia sul Golfo di Guinea aumenta la distanza tra la popolazione e i governi. Un canyon di sfiducia che si allarga man mano aumentano i casi di violenza e impunità.
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