La cerimonia, lunedì 22 maggio, è stata organizzata in pompa magna. Presenti uomini di governo, alti ufficiali militari, diplomatici, rappresentanti del settore petrolifero arrivati da ogni angolo dell’Africa. Teatro: la zona di Lekki, alla periferia di Lagos, capitale economica della Nigeria. Occasione: l’inaugurazione della più grande raffineria del paese africano. Un mega-impianto che sarà capace, secondo il presidente uscente Muhammadu Buhari, di produrre qualcosa come 650mila barili di petrolio al giorno. “Il che – ha dichiarato il capo di stato – dovrebbe permettere alla nostra nazione di diventare autosufficiente in termini di approvvigionamento di carburanti e di avere anche a disposizione del surplus da destinare alle esportazioni”. Ciò anche grazie alla vicinanza di un nuovo grande porto costruito nella regione.
“Renderemo la Nigeria un esportatore netto di petrolio”
Al taglio del nastro non poteva mancare soprattuto Aliko Dangote, miliardario e dirigente dell’omonima compagnia petrolifera che sfrutterà l’impianto. L’uomo più ricco del continente ha promesso dalla tribuna di voler “replicare ciò che è stato già realizzato dal nostro gruppo sul mercato del cemento e dei fertilizzanti, trasformando la Nigeria da importatore ad esportatore netto”.
Effettivamente, il paese, ancorché sesto al mondo in termini di produzione petrolifera, è costretto ad importare la quasi totalità del carburante che consuma, poiché solo quattro raffinerie erano finora in funzione sul territorio nazionale. Inoltre, le vaste zone troppo poco sicure del territorio, assieme ai continui furti nel delta del Niger hanno portato ad abbassare la produzione. Un colpo duro anche per le finanze pubbliche nigeriane. Così come per l’economia, con numerose regioni che soffrono continue penurie di carburanti.
Il cantiere della raffineria è stato un disastro finanziario
La mega-raffineria di Lekki promette di superare il problema, anche perché non produrrà soltanto benzina ma anche gasolio, cherosene e carburante per l’aviazione in quantità sufficiente da rispondere al totale dei consumi nazionali (che risulta attorno ai 450mila barili al giorno). Il resto, appunto, verrà nelle speranze della compagnia, esportato all’estero. Via mare, come detto, ma anche via terra: si prevede che migliaia di camion viaggeranno dalla raffineria verso l’intero vastissimo territorio della Nigeria.
Ma a quale costo? Dal punto di vista economico, è impossibile non ricordare come i lavori di costruzione della raffineria si siano rivelati fatto un disastro finanziario. L’investimento complessivo che è stato necessario per la realizzazione dell’impianto è letteralmente esploso rispetto alle previsioni iniziali, arrivando a sfiorare i 19 miliardi di dollari (il progetto parlava di 9 miliardi). Al di là poi degli annunci roboanti di Buhari e Dandote, secondo il Fondo monetario internazionale, l’impianto difficilmente raggiungerà i 650mila barili al giorno. Si prevedono piuttosto 100mila barili nel 2024, 240mila nel 2025 e 300mila a partire dal 2026-2027.
L’ennesima bomba climatica
Da un punto di vista ambientale, le certezze sono maggiori. Se quei barili verranno raffinati, che siano destinati all’export o al mercato domestico, in ogni caso verranno venduti per essere bruciati. Con tutto ciò che questo comporterà in termini di aggravamento delle emissioni di gas ad effetto serra. Si calcola che il totale di CO2 provocata dalla produzione, trasporto e combustione di un solo barile di petrolio sia attorno ai 400 chilogrammi. Qualora si raggiungesse una capacità di 300mila barili al giorno, le emissioni conseguenti sarebbero perciò di circa 120mila tonnellate all’anno.
La posizione delle nazioni in via di sviluppo come la Nigeria è tuttavia nota: per decenni il Nord del mondo si è arricchito e ha prosperato grazie allo sfruttamento di fonti fossili (non solo petrolio, ma anche carbone e gas), ora che sono le nazioni meno agiate del mondo a farlo non si può chiedere di smettere. Principio corretto, ma solo in astratto. Le emissioni di gas ad effetto serra, infatti, si disperdono nell’atmosfera in modo uniforme, a prescindere dalla provenienza sulla Terra. E alimentano la crisi climatica, i cui effetti colpiranno in modo più marcato proprio le popolazioni più povere del Pianeta.
Le responsabilità del mondo ricco e la lobby nigeriana dell’import
Scegliere di aumentare la produzione di petrolio, dunque, è miope e irresponsabile. Ciò benché le responsabilità dei paesi ricchi del mondo siano innegabili. Così come è innegabile che dovrebbero attivarsi seriamente, come promesso da decenni, per aiutare il resto della Terra a fronteggiare la crisi.
Ciò detto, però, nel caso della Nigeria la scelta di puntare su un nuovo, mega-impianto appare particolarmente assurda. Nonostante i proclami, infatti, non c’è ancora alcun accordo scritto che indichi che la maggior parte dei barili rimarrà in patria. Al contrario, la lobby nigeriana degli importatori è agguerrita e particolarmente potente.
Il governo, da parte sua, punta effettivamente ad eliminare le sovvenzioni alle importazioni di petrolio, che costano cifre spropositate alle casse pubbliche. Ma proprio queste enormi quantità di denaro hanno fatto nascere col passare degli anni una nutrita schiera di trader specializzati nell’importazione di benzina (nonché un sistema che si nutre di corruzione). Il che ha portato sull’orlo del baratro le raffinerie pubbliche, la cui benzina era più cara di quella proveniente dall’estero. Come evitare che la stessa sorte tocchi a Dangote? Il rischio è che lo stato si trovi costretto ad utilizzare quanto risparmiato (se riuscirà a bloccare l’import) per sovvenzionare l’acquisto dei prodotti della nuova mega-raffineria. Arricchendo, alla fine, quasi unicamente lo straricco Dangote, e continuando a prosciugare le casse pubbliche.
Si parla tanto di finanza climatica, di numeri, di cifre. Ma ogni dato ha un significato preciso, che non bisogna dimenticare in queste ore di negoziati cruciali alla Cop29 di Baku.
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