La raccolta differenzata tocca quota 66,6 per cento a livello nazionali, con disparità territoriali ancora forti ma in diminuzione. Aumenta l’export.
Non solo Ilva, gli ori di Taranto vanno oltre l’acciaio
L’oro di Taranto non è l’acciaio dell’ex Ilva. La città pugliese è ricca di tesori culturali e naturalistici tutti da scoprire. Il reportage.
“Diamo un aiuto ai bambini di Taranto”, sollecitava Nadia Toffa, in un suo servizio per il programma tv Le Iene, due anni fa. Il 14 agosto 2019 è toccato ai cittadini tarantini, ricordarla, con una celebrazione nella chiesa del Gesù Divin Lavoratore, nel quartiere Tamburi. La conduttrice aveva promosso una raccolta di fondi partita proprio in quella piazza, dal Mini Bar. Aveva ricevuto per il suo impegno, negli scorsi mesi, la cittadinanza onoraria. I fondi, oltre 500mila euro, raccolti attraverso la vendita delle magliette con la scritta “Ie jesche pacce pe te” (Io esco pazzo per te, ndr), sono stati destinati al reparto di oncoematologia pediatrica dell’ospedale Santissima Annunziata. Come lei stessa aveva ricordato, i bambini tarantini che sono colpiti da tumori e malattie oncologiche precoci, non hanno avuto, per molto tempo, luoghi di cura dedicati in città.
I bambini e gli operai, le prime vittime dell’ex Ilva di Taranto
Il 15 agosto 2019, a Ferragosto, sempre a Taranto, un’ordinanza comunale, secondo le prescrizioni di Arpa Puglia ha imposto nello stesso quartiere la chiusura delle finestre. È stato il Wind day, il giorno del vento che spira, da nordovest, sulla città le polveri dell’ex Ilva, l’acciaieria più grande d’Europa, ora gestita dalla multinazionale ArcelorMittal. E per difendersi occorre chiudersi in casa. Veleni che, appunto, colpiscono i più deboli e indifesi. I dati epidemiologici dell’ultimo rapporto epidemiologico Sentieri, a cura dell’Istituto superiore di sanità, sono chiari: di industria si muore e ci si ammala, già in fase prenatale.
Sono bambini e ragazzi a pagare il prezzo più alto dell’inquinamento. Con un tasso del 21 per cento di mortalità infantile più alto rispetto alla media regionale, più 54 per cento di tumori in bambini da 0 a 14 anni, più 20 per cento di eccesso di mortalità nel primo anno di vita e più per cento di malattie iniziate già durante la gestazione. Tra il 2002 e il 2015, su 25.853 nati da madri residenti, è stato rilevato il 9 per cento in più di malformazioni congenite in base alle media regionale: 600 casi su 550 casi attesi.
Situazione che ha fatto insorgere la cittadinanza in manifestazioni, fiaccolate e flashmob. Eppure, nonostante il piano di risanamento ambientale in corso che prevede 1,15 miliardi di euro di investimenti da parte dell’attuale gestore, multinazionale indiana, nei mesi scorsi, i livelli di diossina sono tornati a crescere, dentro e fuori lo stabilimento. Sempre nel quartiere Tamburi, i genitori esasperati hanno occupato la scuola Grazia Deledda, che sorge a ridosso delle colline “ecologiche” che dovrebbero isolarla dallo stabilimento. Messe sotto sequestro dall’autorità giudiziaria perché altamente contaminate.
Taranto, città da bonificare
Non si può dimenticare che Taranto è anche un Sito di interesse nazionale per le Bonifiche (Sin), esteso su un’area di 15 chilometri quadrati, che coincide proprio con l’area industriale. Questo vuol dire che, secondo le leggi dello Stato italiano, necessita di bonifiche urgenti, coordinate dal commissario straordinario, in quanto l’inquinamento ha ricadute certe sull’ambiente e sulla salute dei suoi cittadini.
Mentre lo skyline della città sta cambiando, con la costruzione delle enormi coperture dei parchi minerari che dovrebbero limitare, finalmente, le polveri velenose sulla città, lo scorso 10 luglio, un altro operaio di 42 anni, Cosimo Massaro, è morto caduto dalla gru, finita in mare, a seguito della tromba d’aria che ha colpito il golfo di Taranto. Esattamente come accadde il 28 novembre 2012, provocando, allora, la morte di Francesco Zaccaria. Otto sono i caduti sul lavoro negli ultimi anni per infortunio. In centinaia hanno contratto tumori maligni come il mesotelioma, dovute all’utilizzo dell’amianto nei processi di lavorazione.
Una fabbrica che opera sotto sequestro
“Lo stabilimento di Taranto è sotto sequestro dal 2012 e non può essere gestito senza che ci siano le necessarie tutele legali fino alla completa attuazione del Piano ambientale”. Sono le parole della direzione di ArcelorMittal Italia che ha così commentato le novità introdotte dal governo italiano nel decreto Crescita. È proprio così: con il decreto del 2017, scaduto lo scorso 30 giugno, chi ha gestito lo stabilimento ha potuto godere fino ad ora dell’immunità penale. Tutele legali, dicono da ArcelorMittal che è necessario restino in vigore “per evitare di incorrere in responsabilità relative a problematiche che gli attuali gestori non hanno causato”. Se così non fosse la multinazionale indiana ha già annunciato il fermo dello stabilimento per il prossimo 6 settembre.
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Intanto lo scorso 24 gennaio 2019 la Corte europea per i diritti umani (Cedu) ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani a Taranto. L’accusa è quella di aver tutelato più la produzione di acciaio dello stabilimento Ilva con 12 decreti e non la salute degli abitanti. Sentenza divenuta definitiva lo scorso 24 giugno, ma su cui il governo non si è pronunciato.
Secondo la Cedu, spetta al Comitato dei ministri europei far attuare all’Italia i lavori di bonifica dello stabilimento e del territorio interessato dall’inquinamento. Come ricorda Lina Ambrogi Melle, cittadina prima firmataria di un nuovo ricorso già pendente di fronte alla Corte “È chiaro, a questo, punto che le nostre uniche speranze di ottenere giustizia siano ancora una volta rivolte alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo e per questo continuiamo ad inviare delle memorie su quello che succede qui in Italia”.
L’oro di Taranto non è l’acciaio
Lungo la strada che porta dal quartiere Tamburi all’ex Ilva, proprio accanto al siderurgico, corre ancora l’acquedotto del Triglio, opera di ingegneria idraulica di epoca romana. Simbolicamente, il glorioso passato storico e l’incerto presente industriale di Taranto distanti pochi metri, convivono fianco a fianco. Ma non c’è solo l’acciaio. Non si può dimenticare che l’antica Taras, colonia spartana, è stata una capitale della Magna Grecia. Oggi è anche conosciuta come la città degli Ori, grazie al Marta, il Museo archeologico nazionale di Taranto, uno dei musei archeologici più importanti al mondo: riallestito nel 2016, è sede di tesori preziosi dell’antichità ritrovati. Ad esso si aggiunge lo splendido Castello Aragonese sul mare, il luogo culturale più visitato della città pugliese. Antiche vestigia sono disseminate, però, in tutti i quartieri, tra la città vecchia e nuova. Tanto che sono nati percorsi da compiere a piedi o in bicicletta per raggiungere i luoghi più importanti.
Taras capitale della Magna Grecia
Dal circuito degli Ipogei di via Cava al Museo Spartano, nel Borgo Vecchio. Fino al Parco archeologico delle Mura Greche e quello del Collepasso, che sono i resti delle opere a protezione dell’antica acropoli. Altri sono più difficili da trovare. Ma grazie all’insieme di associazioni e di cooperative culturali che spaziano da Taranto vecchia, che ha costruito una mappa partecipata della città, a Taranto sotterranea, oggi è possibile scoprire anche i luoghi e i reperti più nascosti.
Vere e proprie necropoli, come quella di via Marche, resti di ipogei o aree archeologiche come quella di largo San Martino. “Taranto ha bisogno di una seria regia pubblica illuminata per valorizzare il suo patrimonio diffuso”, precisa l’archeologo Luca Adamo che, nella cooperativa culturale Polisviluppo, si occupa di didattica. “Dal 2014, l’insieme delle cooperative che ha dato vita a Taranto sotterranea sta dando il suo contributo. Intanto, abbiamo fatto conoscere a 11mila bambini la bellezza e la storia antica di questa città. E ci siamo inventati percorsi di archeologia urbana per avvicinare turisti e cittadini all’arte, in ogni stagione: dalla notte bianca dell’archeologia, fino all’Archeo bike tour”.
La città dei due mari e le oasi naturali
Una storia millenaria che merita attenzione, circondata com’è da una natura portentosa, anche grazie a una conformazione del territorio unica al mondo, divisa tra due mari, il mar Grande e il mar Piccolo. Proprio nel secondo seno del mar Piccolo ha sede un’oasi naturale, fino al 2006 curata dal Wwf, sulle cui basi è nata la riserva palude La vela, ora riserva regionale orientata. Nell’aprile 2016 è nato anche il progetto dell’Ecomuseo, sostenuto da Fondazione per il Sud e dal comune di Taranto. Obiettivo la riqualificazione dell’area protetta facendo fulcro su biodiversità, sostenibilità ambientale, economica e socioculturale. Un progetto partecipato, per restituire memoria e consapevolezza, in collaborazione con i dipartimenti di Biologia e di Geologia dell’Università di Bari, insieme a un folto gruppo di associazioni.
La mappa partecipata per riscoprire ambiente e tradizioni
“Il mar Piccolo è il punto nevralgico di un’era geologica che non appare ancora nei libri di scienze. Così come racchiude nel suo habitat specie naturalistiche uniche dalle più note come cavallucci marini e pinne nobilis, a spugne e specie uniche”, racconta Fabio Millarte, responsabile Wwf e appassionato mattatore dell’Ecomuseo. “L’anno scorso abbiamo accolto 12mila visitatori nel mar Piccolo, di cui cinquemila provenienti dalle scuole e oltre 1.100 turisti si sono avventurati tra le sue sponde in canoa”.
Insieme alla tutela della natura, si pensa al recupero della cultura materiale e immateriale attraverso la creazione di una mappa di comunità, per tornare a riscoprire antichi mestieri, culture e saperi. La storia di un territorio, dimenticata con l’avvento dell’industria e di cui ci si vuole riappropriare, ripensando un futuro sostenibile. “Dalla pesca alla mitilicoltura, alla raccolta delle alghe in eccesso riutilizzabili per carta e bioplastiche. Finora abbiamo coinvolto e raccolto informazioni insieme a oltre 150 cittadini, professionisti e scuole”, spiega Millarte. “L’Ecomuseo può diventare il nuovo fulcro di Taranto: abbiamo calcolato che l’indotto turistico potrebbe portare lavoro per almeno 10mila persone”.
In masseria si combatte contro i veleni dell’ex Ilva
Ma non si possono dimenticare i veleni che ancora ricadono sulla città e nelle aree intorno al polo industriale. Lo sa bene Vincenzo Fornaro, oggi consigliere comunale, proprietario dell’antica masseria Carmine, risalente al 1859. Nel 2008 l’Asl accertò che la zona intorno allo stabilimento Ilva per un raggio di 20 chilimetri era contaminata dalla diossina emessa dal siderurgico. Dopo l’abbattimento di tutti i suoi animali, Fornaro avrebbe potuto darsi per perso. Eppure, da cinque anni ha completamente reinventato il suo modo di fare l’imprenditore agricolo. La masseria Carmine, divenuta fattoria didattica, è entrata a far parte di una sperimentazione all’avanguardia, attraverso la coltivazione di canapa, per bonificare il terreno.
Anche se, non senza difficoltà. “Quest’anno a causa delle alte quantità di diossina, ci è stato impedito di seminare. È troppo pericoloso. Ora attendiamo le ultime analisi. Sembra che i terreni ne abbiamo assorbita meno di quanto previsto. Speriamo di poter riprendere la bonifica”. La sperimentazione è ora prevista dalla regione Puglia e andrebbe maggiormente sostenuta. La stessa procedura è stata già replicata in Sardegna, dove l’Agenzia per la ricerca scientifica, la sperimentazione e l’innovazione tecnologica nei settori agricolo, agroindustriale e forestale, ha iniziato in questo modo la bioremediation nell’area delle ex miniere nel Sulcis Iglesiente.
Citizen Science per il monitoraggio dell’inquinamento e per aria pulita
Taranto è anche città, pur nella sua complessità, terra di eccellenze civiche, in prima fila nell’applicazione della citizen science (cioè la ricerca scientifica fatta con l’ausilio dei cittadini) in Italia. Alessandro Marescotti, docente e presidente di Peacelink, storica associazione impegnata nella tutela dei diritti umani, non ha mai smesso di studiare, documentarsi e raccogliere dati sulle ricadute dell’inquinamento ambientale e sanitario del polo industriale. “Oggi stiamo lavorando a capitalizzare questo patrimonio di conoscenza. E con il progetto di Ecodidattica abbiamo formato più di 100 insegnanti. Tutti insieme lavoriamo per formare una nuova generazione di cittadini consapevoli, attivi a salvaguardia della salute e dell’ambiente”.
Marescotti è la memoria storica della lotta contro l’inquinamento causato dall’Ilva. Colui che portò il primo campione di latte e formaggio contaminato dalla diossina, alla magistratura, nel 2008. Da lì sono partite le indagini che hanno portato all’apertura del processo Ambiente svenduto che, nel 2012 su iniziativa del giudice per le indagini preliminari Todisco, mise sotto sequestro gli impianti del siderurgico, “senza facoltà d’uso”.
Insieme ai suoi soci e collaboratori, come il reporter Luciano Manna, informa puntualmente i cittadini e l’opinione pubblica delle mancanze istituzionali. Fa quello che si definisce monitoraggio civico. “Oltre che video e foto sulle emissioni incontrollate, grazie alla collaborazione con un gruppo di hacker civici, abbiamo utilizzato gli open data sulle emissioni forniti dell’Agenzia regionale per l’ambiente (Arpa). Oggi è possibile, anche attraverso Twitter, leggere i dati ambientali delle centraline nei punti più critici della città. E con poche risorse, grazie ad Arduino, costruire apparecchi in grado di controllare il livello di micropolveri in casa o all’esterno”.
Alla vigilia dell’ennesimo decreto Salva Ilva, ogni mezzo è valido per cercare di dare voce alla gente di Taranto. “Anche se le norme vengono continuamente cambiate, anche se c’è in vista la riconferma dell’immunità penale, noi non rinunciamo alla richiesta dei nostri diritti. Abbiamo il diritto alla giustizia, alla vita, come in tutte le altre città”.
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