La riapertura dei rapporti diplomatici tra la Lega Araba e la Siria avrà implicazioni sui rifugiati siriani. Ne parliamo con Wafa Ali Mustafa, attivista e giornalista siriana.
La prima parte del 2023 può essere descritta come un momento cruciale per la costruzione di un nuovo ordine geopolitico nella regione sudoccidentale dell’Asia: la discussione di un accordo di pace per portare a termine la guerra in Yemen, la riapertura dei rapporti diplomatici tra Iran e Arabia Saudita mediata dalla Cina, e, in ultimo, la riammissione del regime siriano di Bashar al-Assad all’interno della Lega Araba.
Se da un punto di vista geopolitico, questa nuova ventata di panarabismo può essere interessante, dall’altra è preoccupante dal punto di vista dei diritti umani, in particolare se guardiamo alla Siria. A fare le spese della normalizzazione della Lega araba con il regime di Bashar al-Assad ci sono i milioni di rifugiati siriani che da ormai più di dieci anni vivono nei Paesi della regione, e i prigionieri politici che da più di dieci anni sono detenuti nelle carceri siriane.
La normalizzazione nella Lega araba
Dopo la sospensione avvenuta nel novembre del 2011, la Lega araba, durante il meeting a Il Cairo a inizio maggio, ha reintegrato nell’organizzazione la Siria di Bashar al-Assad. Il voto segna una svolta nella normalizzazione del regime di Assad. È il culmine di una campagna durata anni da parte dei leader di Emirati Arabi Uniti, Oman e Giordania per riavvicinarsi al presidente siriano Bashar al-Assad, sperando che il richiamo della normalizzazione sia più efficace delle sanzioni per convincerlo ad affrontare le preoccupazioni regionali: la questione dei rifugiati e il traffico di captagon, l’anfetamina prodotta in Siria il cui traffico è gestito da Maher al-Assad, il fratello del rais, ormai diffusa in tutta la regione, usata come arma di scambio dal regime per la riammissione nell’organizzazione.
Bashar al-Assad’s regime has done nothing to merit its embrace by Arab states https://t.co/3IQyOY3HoV
Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. L’Unione europea attualmente esclude la normalizzazione delle relazioni con il regime di Assad e la revoca delle sanzioni senza una transizione democratica, una conformità con le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e la cessazione della persecuzione e dell’oppressione del popolo siriano. L’Iran e la Russia hanno visto con favore il reintegro del loro alleato nella Lega araba. Negli Stati Uniti, invece, diversi legislatori hanno presentato un disegno di legge per impedire al governo americano di riconoscere Bashar al-Assad come presidente della Siria e a rafforzare la capacità di Washington di imporre sanzioni.
I rifugiati come strumento elettorale
L’uso politico dei rifugiati in campagna elettorale, non solo in Europa, è diventata pratica diffusa anche altrove, e nelle ultime settimane lo abbiamo visto in Turchia. Il ballottaggio per le elezioni presidenziali turche vinte da Recep Tayyip Erdoğan si sono giocate sul ruolo degli ultranazionalisti di Sinan Oğan, il candidato arrivato terzo al primo turno ottenendo circa il 5 per cento dei voti. Durante la campagna per il secondo turno, il leader dell’opposizione Kemal Kılıçdaroğlu ha deciso di puntare sui 2 milioni di voti degli ultranazionalisti, con una strategia che, in realtà, si è dimostrata fallimentare.
Kılıçdaroğlu, infatti, ha indurito i toni e ha puntato la sua campagna sulla promessa di cacciare dal Paese i 3,7 milioni di rifugiati siriani presenti in Turchia. Le città sono state tappezzate di manifesti del candidato dell’opposizione con la dicitura “i siriani se ne andranno”. Alla politica responsabile, di compromesso e tolleranza che ha caratterizzato inizialmente il leader dell’opposizione, è stata sostituita una politica nazionalista xenofoba contro i rifugiati. Questa strategia non è servita a vincere le elezioni, ma ha comportato la perdita di consensi delle minoranze del Paese, in particolare dei curdi, che hanno ridotto il consenso nel leader del Chp.
Kilicdaroglu’s Turkish nationalist turn and alliance with right wing populist Ozdag cost him dearly with the Kurdish vote
Secondo le Nazioni Unite, circa 5,5 milioni di rifugiati siriani fuggiti dall’inizio del conflitto nel 2011 sono registrati in Libano, Giordania, Turchia, Iraq ed Egitto. E ora il loro destino è incerto, vista la volontà di questi Paesi di rimpatriarli in Siria. Il rischio deportazioni è molto alto, ed è già uno scenario reale in Libano.
Le forze armate libanesi hanno recentemente e sommariamente deportato centinaia di rifugiati in Siria, dove rischiano di essere perseguitati o torturati. Le deportazioni avvengono nel contesto di un’allarmante ondata di retorica anti-rifugiati in Libano e di altre misure coercitive volte a spingere i rifugiati a tornare nel loro Paese. Dall’inizio di aprile, le Forze armate libanesi hanno effettuato incursioni discriminatorie nelle case dei rifugiati siriani in tutto Libano, per poi deportare immediatamente la maggior parte di loro. Secondo Amnesty International, molte delle persone deportate con la forza fanno parte del sistema Unhcr.
In Giordania, il discorso fondamentale sui rifugiati è legato principalmente al campo profughi di Rukban, al confine con Siria e Iraq. Rubkan è un campo profughi informale nel deserto della Siria orientale, a pochi chilometri dalla base della coalizione guidata dagli Stati Uniti presso il presidio di al-Tanf (ATG). Dal 2015, Siria, Giordania, Russia e Stati Uniti si sono astenuti dal rivendicare la responsabilità del campo, causando un lungo periodo di inazione con gravi conseguenze umanitarie. Inizialmente, la Giordania ha fornito aiuti attraverso vari intermediari e persino concesso ai gruppi di soccorso un accesso, ma con la pandemia di covid-19 ha definitivamente chiuso il valico. Ora, con la normalizzazione, gli abitanti del campo temono per il loro futuro, anche in seguito ai crescenti attacchi.
Il nodo irrisolto dei prigionieri politici
Oltre ai rifugiati, c’è un altro gruppo di persone che teme la normalizzazione dei rapporti con il regime di Assad, i prigionieri politici che, secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, sono 969.854.
Di questo ne parliamo con Wafa Ali Mustafa, attivista e giornalista siriana in esilio a Berlino dal 2016, sopravvissuta alla detenzione e figlia dell’attivista Ali Mustafa, di cui non ha più notizie dal suo arresto avvenuto nel 2013.
La normalizzazione dei rapporti con il regime di Bashar al-Assad ha stupito solo i non addetti ai lavori che non hanno seguito la situazione degli ultimi anni: abbiamo avuto prima un riavvicinamento con la Turchia nel 2021 e ora con la Lega araba. Qual è il vero rischio di questa riapertura dei rapporti?
La riapertura delle relazioni con il regime di Assad comporta rischi e implicazioni significative evidenti per chi ha seguito da vicino la situazione negli ultimi anni. La normalizzazione implica l’accettazione e la legittimazione di un regime responsabile di numerosi crimini di guerra, crimini contro l’umanità e gravi violazioni dei diritti umani e mina la possibilità di perseguire i responsabili.
C’è il rischio della creazione di una narrazione che minimizza o cancella le sofferenze patite dai siriani, soprattutto da coloro che sono stati messi a tacere, detenuti o fatti sparire con la forza. Con la normalizzazione delle relazioni, si rischia un’operazione di whitewashing dei crimini del regime e di permettere la riscrittura di una versione distorta del passato, che può ostacolare il cammino verso una società giusta, e diffondere il sentimento di impunità.
Un altro rischio significativo è l’impatto sul popolo siriano e sulla sua lotta in corso per la libertà, la giustizia e i diritti umani. La normalizzazione può minare le aspirazioni e gli sforzi di coloro che hanno combattuto instancabilmente per una Siria democratica e inclusiva. Erode la fede e la fiducia della popolazione siriana nella comunità internazionale, in quanto privilegia gli interessi politici rispetto al loro benessere e ai loro diritti.
È fondamentale che la comunità internazionale rimanga vigile, dare priorità alle voci e ai diritti dei siriani e sostenere i principi della giustizia e dei diritti umani in tutti gli impegni diplomatici.
Da un lato, soprattutto durante le giornate dopo il terremoto, abbiamo visto un tentativo di whitewashing dell’immagine di alcuni miliziani di Al Nusra da parte dei media occidentali, ora vediamo un tentativo di ripulitura di immagine del regime da parte dei Paesi della regione. Perché siamo arrivati a questo?
Non sono un’analista politica, ma dal mio punto di vista di attivista e di figlia di un detenuto, credo che il tentativo di whitewashing l’immagine di alcuni attori possa essere attribuito a vari fattori e motivazioni. In primo luogo, spesso è in gioco un interesse geopolitico. I Paesi della regione possono cercare di normalizzare le relazioni con il regime di Assad per portare avanti i propri programmi politici o economici, senza tener conto delle violazioni dei diritti umani da parte del regime.
In secondo luogo, può esserci il desiderio di preservare le strutture di potere esistenti. Alcuni Paesi possono dare la priorità a mantenere lo status quo e ad evitare ulteriori cambiamenti, piuttosto che affrontare le violazioni dei diritti umani. Terzo, può esserci un calcolo strategico per allinearsi con regimi o fazioni che sono percepiti come vincenti, in linea con quanto successo durante gli anni del conflitto.
Non si può trascurare l’influenza delle narrazioni dei media e dell’opinione pubblica. In alcuni casi, può esserci uno sforzo deliberato per manipolare o plasmare la percezione pubblica ritraendo alcuni attori, come il regime di Assad, in una luce più favorevole.
Nel complesso, il tentativo di ripulire l’immagine del regime o di alcuni gruppi armati riflette una complessa interazione di interessi geopolitici, calcoli strategici e narrazioni mediatiche. Sottolinea la necessità di un’analisi critica, di un’attenzione ai diritti umani e di una comprensione completa delle dinamiche sottostanti nel valutare le motivazioni e le implicazioni di tali sforzi.
Se della questione dei rifugiati si sta parlando, date le implicazioni internazionali, nessuno menziona la questione relativa alle persone scomparse durante le proteste e dei prigionieri politici del regime, tra cui figura anche tuo padre. Quali implicazioni può avere la normalizzazione?
Il silenzio sulla questione delle sparizioni forzate e dei prigionieri politici sotto il regime di Assad, tra cui mio padre, è enorme. Quando si discute della questione dei rifugiati siriani, il tema dei detenuti e dei famigliari degli scomparsi è completamente cancellato.
La normalizzazione delle relazioni può essere vista come un tentativo di legittimare e ripulire le azioni del regime, tra cui le sparizioni forzate e l’imprigionamento di almeno 135 mila persone. Questo veicola il messaggio sulla possibilità di poter trascurare e ignorare crimini per motivi di convenienza politica, il che mina il perseguimento della giustizia.
Per le famiglie come la mia, che hanno i propri cari scomparsi, la normalizzazione acuisce ulteriormente le ferite e perpetua il senso di ingiustizia. Ci nega l’opportunità di cercare la verità, la giustizia e di chiudere il cerchio per i nostri familiari scomparsi. Cancella le loro sofferenze e il dolore che sopportiamo mentre continuiamo a cercare risposte e a sperare in un loro ritorno sicuro. Ha implicazioni psicologiche sui detenuti e sui parenti.
Normalizzare le relazioni senza affrontare la questione delle sparizioni forzate e dei prigionieri politici perpetua una cultura dell’impunità. Permette ai responsabili di sfuggire alle responsabilità e a continuare a violare i diritti umani. Se si trascura questa questione cruciale, si rischia di normalizzare un regime che ha causato sofferenze incommensurabili al suo stesso popolo. È fondamentale portare l’attenzione su questo problema, chiedere giustizia e garantire che le voci delle persone scomparse e delle loro famiglie siano ascoltate e considerate prioritarie in ogni discussione sulla normalizzazione.
Nei mesi scorsi hai fondato insieme ad altre realtà “Free Syria’s Disappeard”. Ti va di raccontarci qualcosa su questa realtà?
La coalizione “Free Syria’s Disappeared” è un’iniziativa collaborativa fondata da sopravvissuti alla detenzione, famiglie di scomparsi siriani e attivisti per i diritti umani. Il nostro obiettivo è costruire un forte movimento globale che sostenga la libertà e la sicurezza di tutti i detenuti e delle persone scomparse con la forza in Siria. Ci impegniamo in attività di advocacy, conduciamo campagne di sensibilizzazione sulle modalità di detenzione in corso e sul rischio reale di sparizione sotto il regime siriano e altri gruppi.
La nostra coalizione chiede il rilascio di persone detenute arbitrariamente e/o scomparsi, chiede indagini su crimini contro l’umanità, sostiene il meccanismo internazionale per le persone scomparse in Siria, fornisce assistenza legale agli ex detenuti che chiedono giustizia e ai detenuti che cercano giustizia, chiede una documentazione indipendente della detenzione e della sparizione forzata. Sottolineiamo la necessità di giustizia e responsabilità invece di perseguire il rinnovo delle relazioni diplomatiche con il regime siriano.
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