È sbarcata questa mattina, con 73 persone a bordo, la nave Geo Barents di Medici senza Frontiere, al termine della sua seconda missione in pochi giorni. Questa volta però la nave umanitaria ha incontrato due difficoltà in più rispetto a qualche giorno fa: il maltempo e la decisione del governo di assegnare come porto di sbarco quello di Ancona, sulla costa adriatica, qualche centinaio di miglia di navigazione più a nord rispetto al porto di Taranto, dove la Geo Barents era approdata il 4 gennaio, e rispetto a Lampedusa o alla Sicilia.
Ancona, un porto sicuro ma lontano per la Geo Barents
Questo è un assaggio della tempesta affrontata da #OceanViking perché evidentemente l’unico porto sicuro in Italia per chi salva gente da morte certa è a 850 miglia nautiche, quattro giorni di navigazione e l’inferno in mare di distanza. Più che una decisione, sembra un dispetto pic.twitter.com/Nf38bn8f4d
Perché Ancona, così a nord, in 24 ore è stata scenario di due sbarchi di navi ong, la Ocean Viking prima e la Geo Barents poi, per un totale di 110 persone a bordo? Perché il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha spiegato che il Viminale sta cercando di distribuire in maniera equa tra le varie d’Italia il carico degli sbarchi che continuano a susseguirsi. In realtà, però, la stessa sindaca di Ancona, Valeria Mancinelli, ha ritenuto di dover pubblicare un video per spiegare ai propri cittadini – tanto sono poco abituati a uno sbarco di migranti alle loro latitudini – che “il luogo di sbarco e quelli che di accoglienza, in cui verranno condotti i migranti, non sono correlati”: per esempio, la sindaca ha fatto notare che ad Ancona sono già stati accolti 400 migranti approdati sulle coste della Sicilia e della Puglia.
Il Governo ha stabilito che due navi con a bordo 110 migranti sbarchino al porto di Ancona. Voglio darvi le informazioni essenziali e corrette sulla vicenda e su quello che avverrà nella nostra città, per evitare, per quanto possibile, preoccupazioni ingiustificate ed il chiacchiericcio strumentale.
La Geo Barents sarebbe dovuta sbarcare già martedì, poi proprio il maltempo, con onde alte anche due metri e mezzo (la stessa situazione fronteggiata dalla Ocean Viking), ha fortemente frenato la navigazione: l’equipaggio ha chiesto un porto più vicino, ricevendo risposta negativa dalle autorità. “È il nostro quarto giorno di navigazione verso Ancona – spiegava ieri Fulvia Conte, responsabile dei soccorsi a bordo della Geo Barents descrivendo la situazione a bordo nell’ultimo giorno in mare – a causa delle meteo procediamo a velocità molto ridotta, neanche 5 chilometri l’ora. La scorsa notte abbiamo dovuto spostare le persone da un deck più basso, ormai allagato, a un deck più alto ma dove si balla di più, e stanotte molte persone sono state malissimo. Una sofferenza inutile, che si aggiunge a quelle vissute dai migranti durante le loro fughe”.
“Stiamo andando a 2,5 nodi, invece di 10. Ci sono onde alte fino a 4 metri. I 73 sopravvissuti sono sul ponte più alto della #GeoBarents , quello più basso è allagato. Qui il mal di mare si sente di più. Stiamo distribuendo a tutti bustine per vomitare” Fulvia Conte @MSF_Sea
Sofferenze come quelle patite, ad esempio, da Ochek (il nome è di fantasia), che ha 21 anni ed è uno delle 73 persone appena sbarcate dalla Geo Barents. E che nelle scorse ore, le ultime ma travagliatissime di navigazione, si era sfogato raccontando la propria storia. Che può rappresentare a titolo di esempio quella di tutti.
Ochek e una fuga che dura da 17 anni
“Sulla nave di Medici Senza Frontiere mi sento al sicuro – aveva detto due giorni fa – Ma, allo stesso tempo, non sono ancora completamente sollevato perché sono ancora in mare e ho paura di tornare indietro. Non vedo l’ora di raggiungere l’Italia e toccare terra per iniziare a dimenticare tutto quello che ho vissuto in Libia e in Africa”.
❗️ Ochek*, 21 years old from #Eritrea, is one of the 73 survivors currently aboard #GeoBarents.
“At sea until now, I’m not feeling safe. I’m in between two places. Will we reach land or not? I hope we will arrive safely and get over #Libya.”
Ochek viene dall’Eritrea, “dove i bambini di 8 o 9 anni vengono arruolati nell’esercito”: fuggito in Sudan all’età di 4 anni con la madre proprio per fargli evitare il servizio militare permanente (principale motivo di fuga degli eritrei), perché “un giorno il governo ha portato via mio padre e mia madre ha avuto paura che succedesse lo stesso a me”, ha vissuto in Sudan 13 anni, “ma da quando avevo 14 anni avrei voluto andarmene, non pensavo che sarebbe stato così tanto pericoloso. Pensavo sarebbe stato semplice arrivare in Libia e poi in Europa. In Sudan ho fatto diversi lavori, ho lavorato in un ristorante e in una miniera d’oro nelle montagne. Poi ho deciso di andare in Libia e lì le cose sono cambiate”.
L’inferno della Libia
Già dalla partenza inizia il calvario: “Per andare in Libia ho pagato un intermediario. Lui mi aveva detto che avrebbe pagato il trafficante, ma il trafficante mi disse che non aveva ricevuto niente e così avrei dovuto pagare di nuovo o avrei dovuto lavorare per lui. Non sempre mi trattava bene, così dopo 3 mesi sono fuggito”. In Libia, spiega Ochek, gli eritrei sono costretti a vivere nascosti. “Dobbiamo rimanere in casa, raramente usciamo perché se ci vedono ci rapiscono per chiedere il riscatto. Ci chiedono di pagare in dollari perché credono che abbiamo parenti in Europa. Sono stato rapito due volte ma entrambe le volte sono riuscito a fuggire”.
In prigionia “la mattina ci davano un pezzo di pane e c’era una tanica d’acqua desalinizzata, amara. Dentro la stanza c’era un bagno e dormivamo su un fianco, uno attaccato all’altro per terra. Eravamo 70/100 persone ma non c’era un limite di persone”. Poi la fuga, il lavoro per mettere da parte i soldi per pagare nuovamente un trafficante. “Mentre ci stavano trasferendo verso Tripoli, però, siamo stati arrestati e ci hanno imprigionato di nuovo in una stanza sovraffollata. Maltrattamenti, abusi, umiliazioni erano all’ordine del giorno. Era una milizia. Siamo rimasti lì per 15-20 giorni”.
#FreeThemAll We went out today so that #UNHCRLibya#IOM_Libya realize that we are still suffering in Tripoli #militias beat us, killed some of us, and raped our sisters We were taken to Ain Zara prison to silence us But we did not give up, we are still fighting for our rights pic.twitter.com/stgADX4jk9
Ochek giura che “fino al giorno in cui non ho lasciato la Libia ho subito torture e maltrattamenti e ho visto con i miei occhi persone picchiate e maltrattate. Sono stato torturato. Mi hanno legato le mani e bruciato con una sbarra di ferro ardente. Ho il petto pieno di cicatrici. Ci colpivano con il fucile o ci bruciavano il petto con metalli ardenti. Ci costringevano a chiamare la famiglia per chiedere aiuto, per mandare i soldi del riscatto. Dopo 15 giorni di torture, uno di questi trafficanti, un uomo anziano di circa 80 anni, vedendomi in quello stato ha detto agli altri che sarei morto se avessero continuato a torturarmi. Altre persone che avevano già pagato il proprio riscatto hanno raccolto altri soldi e hanno pagato anche per me. Mi hanno messo in macchina e mi hanno lasciato a Tripoli dove ho trovato un gruppo di sudanesi con cui sono rimasto”.
Kidane Zekarias Habtemariam gestiva un campo in #Libia che ospitava migliaia di #migranti. Le sue vittime hanno dovuto affrontare aggressioni, torture, rapimenti e stupri.
Ma la tortura ha molte forme in Libia. “Vedi donne stuprate davanti a te e non puoi fare nulla anche se arrivano dal Sudan come te. Se provi ad aiutarle ti minacciano con la pistola o ti picchiano con un bastone. Ero pronto a morire in mare pur di non essere catturato dalla guardia costiera libica ed essere riportato indietro e subire di nuovo umiliazioni e torture”.
In mare affidandosi a Dio
L’ultima parte, quella del mare, se possibile è perfino più complicata. “In mare il gommone si muoveva su e giù. Un uomo ha visto una barca di pescatori in lontananza e ha cominciato ad urlare che era la guardia costiera libica. Tutti sono stati presi dal panico, le persone vomitavano, avrebbero preferito morire in mare”.
Prima di prendere il mare, “ci hanno rinchiuso tutti e 70 in una piccola stanza lontano dalla riva. Non puoi parlare, aprire la bocca o muoverti. Eravamo seduti uno accanto all’altro, molto stretti, poi uno per uno ci hanno portato in macchina, dove eravamo accatastati uno sopra l’altro. Ci hanno portato in un altro posto più vicino alla riva, a pochi passi dalla spiaggia. La notte ci portavano fuori in gruppi di 10 persone. Ci hanno fatto portare il gommone e ce lo hanno fatto mettere in mare. Siamo saltati su e abbiamo pregato. Ci siamo affidati a Dio e siamo partiti. Le onde ci portavano su e giù ma, nonostante ciò, non avevamo paura fino a che quell’uomo non ha gridato che c’era la guardia costiera libica”. Del resto, meglio andare e rischiare la vita che tornare nell’inferno della Libia. “Le persone in Libia non sono al sicuro, ci hanno picchiato con tutta la forza e la rabbia, senza pietà, come se avessimo commesso un omicidio contro di loro”. Ora la prima parte del viaggio di Ochek è finita: ne inizia una seconda, meno pericolosa me se possibile ugualmente complicata. La strada dell’accoglienza, non si ancora dove.
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