Opinione

Perché il racconto mediatico delle imprese delle sportive alle Olimpiadi è intriso di sessismo

Certi titoli riferiti alle atlete che gareggiano alle Olimpiadi di Parigi sono esempi di sessismo. E rispecchiano gli stereotipi sul ruolo della donna.

  • I media italiani molto spesso raccontano le imprese delle atlete con sessismo e, durante un evento come le Olimpiadi, le occasioni per notarlo sono moltiplicate.
  • Titolare raccontando il fatto che l’atleta in questione sia moglie o mamma sposta il focus dall’impresa sportiva al ruolo della donna sulla società.
  • Spesso i media hanno anche la tendenza a sessualizzare le atlete, elogiandone o criticandone le caratteristiche fisiche.

Rossella Fiamingo ha vinto la medaglia d’oro nella spada femminile alle Olimpiadi di Parigi. La schermitrice classe 1991 è una delle nostre atlete più forti ed è già alla sua terza presenza olimpica ma, al di là di questo, è una persona con un nome e cognome, con un’identità. Sui giornali italiani, però, prima dell’aspetto sportivo, spesso in questi giorni ha prevalso la spettacolarizzazione della sua vita: “La fidanzata di Gregorio Paltrinieri”, “L’amica di Diletta Leotta”. Come se il racconto della sua carriera e della sua performance come sportiva, in sé, non fosse sufficiente a farle meritare un titolo o un posto in home page. Siamo d’accordo che certe informazioni servano per contestualizzare, ci mancherebbe altro: è un fatto che l’atleta sia fidanzata con il nuotatore e amica della conduttrice, però forse non dovrebbe essere l’informazione principale contenuta in titolo o sommario. Purtroppo, in Italia questo succede spesso quando si parla di successi sportivi femminili: molti giornali e giornalisti non ci riescono proprio a raccontare le imprese sportive delle donne per quello che sono. Tendono a condirle con altri dettagli, spesso appartenenti alla vita privata come mamma, fidanzata o moglie di, amica di, oppure relativi all’aspetto fisico (bellissima, sinuosa e così via). Poche settimane fa il web si è acceso per un altro titolo, riferito questa volta alla tennista Jasmine Paolini, alla quale era stato dedicato un “Sei bellissima” in prima pagina.

SESSISMO OLIMPIADI
La tennista italiana Jasmine Paolini @ Getty Images

Perché non c’è bisogno di specificare che un’atleta è anche mamma

Per così poco, diranno molti. Il così poco però costituisce uno dei tanti tasselli che costituiscono la cultura patriarcale nella quale siamo immersi e che porta poi ad avere difficoltà a declinare le professioni al femminile e a relazionarsi con i successi delle donne in quanto tali. In moltissimi casi le imprese sportive femminili vengono raccontate con un carattere di eccezionalità (“La prima donna a fare questo, la prima donna a fare quello”), come a voler sottolineare che una donna è in grado di fare le stesse cose di un uomo ma solo se si impegna in modo straordinario. E ancora, precisare che un’atleta è anche mamma significa sottolineare quello che riteniamo essere il suo ruolo nella società. Quante volte abbiamo letto un’espressione come “mamma e atleta” e quante “papà e atleta”?. E ancora: quante volte nelle interviste alle sportive leggiamo domande sui figli (“Come fai a conciliare la tua vita di atleta con la cura dei figli?”), mentre a nessun uomo si chiede chi si occupa dei suoi figli mentre lui è impegnato in un’Olimpiade. Stupirsi di come una donna possa riuscire a conciliare il ruolo di madre con qualsiasi altra attività significa dare per scontato che quella debba essere la sua priorità numero uno, il suo ruolo nella società, e che la sua capacità di eccellere anche in altro sia del tutto eccezionale, frutto di condizioni favorevoli o di una forza di volontà estrema. Non si prende in considerazione il fatto che ci sia anche un compagno/compagna, marito/moglie o ex che si divide con lei equamente il carico della cura della casa e dei bambini.

Anni fa, dopo aver consegnato a una testata un’intervista a un’atleta arrivata alla sua quinta partecipazione ai Giochi a trentacinque anni, mi sono sentita chiedere il perché non le avessi chiesto cosa intendesse fare riguardo alla maternità. Quando ho risposto che mi sembrava fosse a fuoco rispetto all’argomento dell’intervista, mi è stato risposto: “Ma alla gente interessa questo. Sapere se a trentacinque anni rinuncerà alla sua carriera sportiva per provare a essere madre prima che sia troppo tardi”. Rimasi sbigottita e continuai a pensare che quella domanda fosse inopportuna, ma questo è: delle donne alla società interessa questo, in che modo intendono assolvere il ruolo di mogli e madri. Questo atteggiamento da parte dei media si manifesta in tutti i campi, non solo nello sport, ma durante un evento come le Olimpiadi le occasioni in cui notarlo sono moltiplicate. Ciò non significa che, durante il resto dell’anno e tra un’edizione e l’altra, il sessismo nel racconto dello sport sparisca dai media.

Il sessismo durante la telecronaca delle Olimpiadi

“Beh, le donne hanno appena finito. Sai come sono le donne… che se ne vanno in giro a truccarsi”. Questa frase è costata la carriera al commentatore australiano Bob Ballard al termine della staffetta 4×100 stile libero femminile che è valsa l’oro alla squadra del suo paese. Eurosport lo ha licenziato in tronco. Questa edizione dei Giochi olimpici infatti vede la parità di genere come focus: non solo il numero di atleti è identico (5.250 donne, 5.250 uomini) ma gli Olympic broadcasting services hanno anche introdotto specifiche linee guida per evitare l’eccessiva sessualizzazione dei corpi femminili durante le riprese delle competizioni. Un altro caso di cui si parlò molto, e per il quale la Rai prese provvedimenti avviando una contestazione disciplinare, risale allo scorso anno. Quando, durante le gare dei Campionati mondiali di sport acquatici di Fukuoka in Giappone, i commentatori Lorenzo Leonarduzzi e Massimiliano Mazzucchi si espressero con commenti inappropriati, sessisti e razzisti durante la finale femminile di tuffi sincronizzati: come “Le olandesi sono grosse” e “Ma tanto a letto sono tutte alte uguali”. Sempre Leonarduzzi si era reso protagonista di un altro episodio imbarazzante nel 2020, prendendo come spunto il cognome del pilota estone Otto Tanak per dire l’infelice battuta “Donna nanak tutta Tanak”. Quella della sessualizzazione delle atlete è infatti un’altra tematica: i corpi sono corpi e, soprattutto durante una performance sportiva, dovrebbero essere raccontati per quello che sono in grado di far fare all’atleta in quel momento. Nelle gare femminili, molto più che in quelle maschili, spesso il focus si sposta sulla gradevolezza o meno agli occhi di guarda, commenta e scrive.

Comitati olimpici ed emittenti stanno correndo ai ripari con l’emanazione di linee guida o le contromisure da prendere nei casi più eclatanti, leggi alla voce Ballard, Leonarduzzi e Mazzucchi. Ma, fino a che continueremo a non leggere in titoli apparentemente innocui (come “Sei bellissima” o “Oro per l’amica di Diletta Leotta, la mamma ecc.”) un intrinseco sessismo, contribuiremo ad alimentare una cultura che nelle donne vede sempre qualcos’altro: non atlete ma oggetti del desiderio, non atlete ma mamme, non atlete ma mogli. La lingua è uno strumento potentissimo, perché dà forma ai nostri pensieri: iniziare a dare una forma linguistica diversa al modo in cui si parla delle atlete è un modo per scardinare certe ataviche convinzioni, per far sì quantomeno che incontrino degli ostacoli. Altrimenti, della velocista tedesca Alica Schmidt si continuerà sempre a dire che è l’atleta più sexy del mondo, di Serena Williams che è mascolina o di Rossella Fiamingo che è la fidanzata di Gregorio Paltrinieri.

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