Due anni fa crollava il ponte Morandi di Genova. 43 morti e lo sconcerto di una nazione intera, trovatasi a piangere la perdita di vite innocenti, vittime di qualcosa che ancora deve essere accertato. Oltre alle vite spezzate, ci sono quelle sospese di chi abitava sotto il viadotto Polcevera. Certosa è il nome del quartiere che si sviluppa intorno al Ponte Morandi, uno dei più popolosi della Valpolcevera che conta oltre 12mila abitanti. Dopo la tragedia del 14 agosto, 566 persone hanno dovuto lasciare la propria abitazione. Questa zona della città sembrava morire: attività chiuse, licenziamenti nelle aziende, spopolamento. In questo contesto è nato On the wall, un progetto di rigenerazione urbana che grazie alla street artha unito i cittadini del quartiere e gli artisti, accumunati dalla voglia di rinascere e ricominciare. 13 opere in altrettanti edifici di Certosa che sono riuscite nel miracolo: far pensare al futuro e a quel che sarà e non a ciò che è crollato.
Ora che il ponte San Giorgio di Renzo Piano ha colmato almeno il vuoto strutturale, e ha permesso di recuperare la viabilità necessaria per una vita quotidiana dignitosa, il quartiere Certosa spera di essere protagonista di una nuova urbanizzazione che passi anche dall’arte e dalla partecipazione.
Noi abbiamo parlato delle 13 facciate realizzate nell’ambito di On the wall e di ciò che hanno significato per i cittadini, con Emanuela Caronti, architetto, membro dell’associazione Link in art che ha ideato il progetto.
Come è nato il progetto On the wall?
Io sono, oltre che architetto, curatrice urbana e da 10 anni faccio parte di Link in art che si occupa a Genova di arte e architettura per la rigenerazione urbana. Ho sempre avuto la passione per i graffiti e, in accordo con gli altri membri dell’associazione, abbiamo deciso di proporre la street art al Comune come mezzo per valorizzare luoghi della città, come i piloni della sopraelevata di Genova. Da lì è partito tutto e ci siamo da subito interfacciati con l’amministrazione pubblica: non è stato semplice perché la street art era vista da molti come una forma di vandalismo, anche per questo noi la definiamo più volentieri arte pubblica e arte urbana. Però, dopo averci conosciuto per altri lavori, nel novenbre del 2018 il Comune ha deciso di interpellarci per coinvolgerci in un progetto nel quartiere di Certosa, proprio dopo il crollo.
Qual è stato lo scopo principale di On the wall? Certosa, dal giorno della tragedia, è stata sotto i riflettori da tutti i punti di vista, ma sempre con un’accezione negativa: è il quartiere della sofferenza, rimasto isolato dal resto della città. Volevamo quindi portare prima di tutto del colore, della vita. Sapevamo bene che non avremmo mai risolto alcun tipo di problema, nè urbanistico, nè di viabilità, non era nostro compito. Ma volevamo insieme agli abitanti cercare di parlare d’altro, utilizzando l’arte come strumento per porre l’attenzione su determinati luoghi, senza proporre alcuna soluzione.
Ma che tipo di quartiere era Certosa prima del crollo? Certosa ha sempre vissuto un po’ a sè. Si trova lungo la val Polcevera, parliamo di pura periferia, di un contesto molto popolare. Qui fa capolinea la metropolitana, c’è un collegamento diretto con il centro ma, di fatto, esiste ancora la dimensione del quartiere. Infatti gli abitanti, parlando, dicono “Vado a Genova” non “Vado in centro”.
Chi ha partecipato al progetto?
Il Comune prima di tutti e poi gli sponsor che lo hanno finanziato in toto. Il tutto è accaduto in tempi molto stretti e siamo riusciti a realizzare i muri grazie a un mese intenso di lavori, dal 13 di luglio 2019 al 12 agosto 2019 perché poi il 14 ci sarebbe stata la ricorrenza del crollo e il nostro desiderio era di andare via prima, per non “invadere” il quartiere in un giorno così delicato. Abbiamo preso contatti con tutte le realtà locali, associazioni, amministratori di condominio, ecc e le reazioni sono state le più varie.
Come hanno reagito in particolare gli abitanti di Certosa?
La reazione iniziale è stata di diffidenza e la prima settimana di lavori davvero difficile, ma abbiamo spiegato ai cittadini che degli sponsor volevano semplicemente abbellire il quartiere portando colore con dei disegni, e soprattutto abbiamo chiarito che sarebbe successo senza che il Comune spendesse un euro. Questo è stato importante per tranquillizzarli che nessun fondo pubblico sarebbe stato “sprecato”. Gli artisti hanno iniziato aprendo ben 4 cantieri nel quartiere, ciò ha significato molta gente al lavoro che popolava la zona – una zona rossa fino a poco prima – dove non c’era quasi nessuno. È stato destabilizzante per i citttadini, ma vedendo in pochi giorni i risultati, cioè le opere terminate, tutto è cambiato. La gente stava improvvisamente in strada, ci faceva compagnia, diceva la sua, si confrontava con i propri vicini. Questo è il vero risultato. Sociale più che artistico.
Molti ci hanno anche aiutato, ci portavano da mangiare, ci fornivano piccoli attrezzi che ci mancavano, creando di fatto una comunità nella comunità che si è anche espressa ispirando gli stessi artisti che, nei disegni, hanno riprodotto alcuni temi venuti fuori dalle chiacchiere in cantiere. Un’opera in particolare, che poteva essere quella meno apprezzata, perché molto geometrica e poco figurativa, è invece quella che ha riscosso maggior successo perché riporta personaggi della zona, la maglia della squadra del quartiere, e altre cose che appartengono davvero ai cittadini. Ora quel muro è il loro muro.
Che ruolo hanno avuto i giovani del quartiere? I giovani ci hanno aiutato moltissimo, senza di loro non ce l’avremmo mai fatta. Avevamo a disposizione una squadra di 28 persone, le stesse che durante la tragedia si erano attivate per dare una mano ai soccorsi della Protezione civile. Quindi solidali e già collaudati fra di loro, oltre che motivati e molto orgogliosi di fare qualcosa di buono per il loro quartiere. Desiderosi di dare finalmente vita a qualcosa. È stato un tale successo che spontaneamente e autonomamente hanno poi usato i colori rimasti per dare un nuovo volto allo stabile dove ha sede la Società operaia cattolica, fulcro e punto di ritrovo della zona.
🤟🏻🏴Pilone 112 – work by CHEKOS ARTGenova Hip Hop Festival – Comunità San Benedetto al Porto – Linkinart#restiamoumani
Mi ha molto colpita una ragazza che un giorno ci ha detto: “Ieri sera a tavola io e la mia famiglia per la prima volta non abbiamo parlato del ponte ma di quale murale ci è piaciuto di più”. La presenza del ponte infatti, che a quei giorni era in corso di demolizione, era davvero molto forte, anche per noi che non eravamo del quartiere. In un mese di lavori abbiamo sentito tutta questa pesantezza. Era il tema di ogni discorso. Una signora invece ha aggiunto: “Avevo un disegno, un muro preferito, ora invece mi piacciono tutti”. Ha quindi capito che l’importante era proprio questa appartenenza creata, questa comunità, non le opere in sè.
Il progetto è terminato ora?
Il tredicesimo e ultimo murale è stato completato lo scorso luglio, lungo il Polcevera, di fronte a un’altra opera. Mentre gli altri 11 sono su edifici del quartiere, questi sono sulle due strade grandi che costeggiano il fiume e fanno da porta alla valle. In questo modo vengono visti da tutti, così come quelli vicino al capolinea della metro. Seguendoli tutti si crea una passeggiata di circa un’ora per il quartiere, cosa che abbiamo già organizzato sotto forma di tour. Ora la gente visita Certosa. È un altro successo.
Come avete scelto gli artisti? Io mi sono occupata di questa parte della curatela e ho scelto di mischiare tutte le forme artistiche presenti nel panorama della street art (figurative, geometriche, astratte) per mostrare oggigiorno quali siano le varie correnti. Tra gli artisti c’è un solo straniero, olandese, poi due genovesi e tutti gli altri italiani. Il tema su cui lavorare era davvero ampio: la gioia, in questo modo gli artisti sono stati il più liberi possibile, ed è la cosa migliore perchè si esprimano al meglio. L’unico vincolo dato è stato quello di non citare il ponte. Anche se da molti cittadini è arrivata la richiesta opposta, abbiamo “tenuto duro”. Il ponte veniva demolito proprio in quei giorni, la gente era, da una parte stanca di parlarne, ma allo stesso tempo non voleva dimenticare e lo citava continuamente. È stato difficile per noi stare lì per un mese, pensate loro per 2 anni. Ci tengo a dire però che hanno dall’inizio affrontato la situazione con grande dignità, a testa alta, senza alcun compatimento. Certosa resiste con fatica.
Cosa si aspetta ora?
Ora noi di Link in art vogliamo continuare su questa linea anche a Sampierdarena, il quartiere accanto, per il quale abbiamo già presentato un progetto al Comune. Quello che potrebbe succedere ora è che questa zona, rivalutata, cambi un po’ faccia: ad esempio i prezzi delle case potrebbero salire. Questo festival, perché alla fine è stato questo, è stato un’occasione come non se ne vedevano da tempo. Una esperienza a livello personale e lavorativo enorme.
Altri progetti a Genova ne avete? Vorremmo riprendere con la realizzazione dei murales sui piloni della sopraelevata: vorremmo disegnarne 100 e siamo solo a 23. Sono circa 4 anni di lavoro, ma in questo caso non abbiamo sponsor grandi ed è più difficile. Disegnare muri è comunque solo una scusa per agire sul sociale. Questo è sempre il nostro vero scopo.
Ora Certosa e Genova hanno un nuovo ponte, lei cosa ne pensa come architetto? Personalmente credo che sia stata un’occasione persa per Genova. Non è che io ce l’abbia con Renzo Piano, ma credo che le istituzioni avrebbero dovuto indire un concorso, invitare i più grandi architetti e ingegnieri del mondo a progettare un ponte degno di ciò che è stato il Morandi che, non dimentichiamolo, ha rappresentato un’opera importante per la città. Il nuovo ponte è un viadotto. Genova, come spesso fa, ha cercato la via più facile e l’apparenza, anche questa volta, ha vinto su tutto. Mi auguro invece si realizzi il progetto del sottoponte tutt’intorno per il quale c’è un concorso. I genovesi hanno comprensibilmente vissuto troppo di pancia tutta la situazione e ora vedono solo che il ponte San Giorgio è semplice ed è terminato.
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