Un orango è stato osservato usare una pianta medicinale, è la prima volta in natura

Un gruppo di ricercatori ha osservato un orango di Sumatra automedicarsi una ferita usando le proprietà benefiche di una pianta: è la prima volta per un animale in natura.

  • scoperta l’automedicazione attiva di una ferita nell’orango di Sumatra
  • è stata utilizzata una pianta con provate proprietà curative, usata anche nella medicina tradizionale
  • un quesito affligge i ricercatori: è un comportamento casuale o volontario?

L’automedicazione nel mondo animale è conosciuta e già stata provata. Tuttavia, non si era ancora mai osservato che gli animali in natura trattassero le ferite con delle piante curative. Dall’Indonesia la scoperta: un orango di Sumatra maschio si è curato una ferita applicando sul viso una pianta dopo averla masticata.

Osservato un orango di Sumatra curarsi una ferita

L’automedicazione sotto forma di ingestione di parti specifiche di piante è molto diffusa negli animali: le grandi scimmie ingeriscono specifiche piante per curare infezioni parassitarie oppure strofinano del materiale vegetale per curare i dolori. Ricordiamo ad esempio gli scimpanzé in Gabon che hanno utilizzato gli insetti per medicarsi le ferite, scoperti dalla ricercatrice Alessandra Mascaro.

Ma in questo caso si è stata osservata l’applicazione di una sostanza biologicamente attiva su una ferita, durante uno studio svolto dai biologi del Max Planck Institute, Germania, e dell’Universitas Nasional, Indonesia. Un maschio selvatico di orango di Sumatra (Pongo abelii) è stato visto curarsi attivamente una ferita sul volto con un pianta, conosciuta come Akar Kuning (Fibraurea tinctoria).

Rakus, l’orango che ha usato la pianta medicinale

“Durante le osservazioni quotidiane degli oranghi, abbiamo notato che un maschio di nome Rakus aveva una ferita sul viso, molto probabilmente causata da uno scontro con un altro maschio”, racconta Isabelle Laumer del Max Planck e prima autrice dello studio. “Tre giorni dopo l’incidente, Rakus ha strappato alcune foglie di Akar, le ha masticate e poi ha applicato ripetutamente la poltiglia sulla ferita per diversi minuti, e come ultimo passo ha coperto completamente la ferita con le foglie masticate”.

Le osservazioni sono avvenute nel sito di ricerca Suaq Balimbing in Indonesia, un’area protetta della foresta pluviale nella quale sono presenti circa 150 individui di orango di Sumatra, specie considerata a grave rischio di estinzione. La pianta utilizzata, e le specie di liana affini ad essa, che si trovano nelle foreste pluviali del sudest asiatico, sono note per i loro effetti analgesici e antipiretici e per questo motivo vengono utilizzate nella medicina tradizionale per curare diverse malattie, come la malaria.

Dopo qualche giorno la ferita non mostrava alcun tipo di infezione, fino ad arrivare alla completa chiusura e guarigione della ferita. “È interessante notare che Rakus riposava più del solito mentre era ferito. Il sonno influisce positivamente sulla guarigione poiché si aumenta il rilascio dell’ormone della crescita, la sintesi proteica e la divisione cellulare”, ha spiegato Laumer.

Un comportamento intenzionale, o no?

Un quesito che affligge sempre i ricercatori quando osservano determinati comportamenti è quanto siano intenzionali queste azioni e come emergano. Un comportamento come quello espresso da Rakus è sembrato completamente intenzionale, poiché con la pianta e il suo succo veniva trattata solo la ferita e nessun’altra parte del corpo. Inoltre, è stato ripetuto più volte, ricoprendo la ferita con materiale sempre più solido così da coprire al meglio il taglio. Il processo è stato lungo ed efficace come hanno osservato i ricercatori.

Una possibile ipotesi di casualità è stata espressa da Caroline Schuppli, altra firma dello studio, la quale ha affermato della possibilità che l’orango abbia accidentalmente strofinato la pianta contro la ferita e, grazie al suo forte potere analgesico, abbia sentito subito piacere, inducendolo a ripetere l’azione più volte. Nell’uomo possiamo affermare che il trattamento volontario delle ferite dovrebbe risalire a circa il 2200 a.C., citato in un manoscritto medico, nel quale si descriveva la pulizia, la copertura con determinate sostanze e la fasciatura delle ferite.

Siccome il trattamento attivo delle ferite non riguarda solo noi umani, ma si possono trovare esempi anche nelle grandi scimmie africane e asiatiche, è possibile che esista un meccanismo di riconoscimento e applicazione di sostanze con potenziali proprietà medicali o funzionali per la cura delle ferite. Questo comportamento, forse innovativo, rappresenta la prima osservazione della gestione attiva delle ferite utilizzando un principio attivo biologico in una specie di grande scimmia e fornisce sia nuove intuizioni sull’esistenza dell’automedicazione nei nostri parenti più stretti che sulle origini evolutive dei farmaci.

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