A causa della forza di gravità, l’altezza massima di una montagna sulla Terra non può superare i 15mila metri. La forza di gravità è direttamente proporzionale alla grandezza del pianeta, più questo è grande maggiore è la forza, e minori le possibilità che una montagna sia alta. È dalla notte dei tempi che tutte le civiltà sono state attratte dalle montagne e sulle loro altezze hanno costruito le loro certezze e credenze. Non è un caso che nel mondo ellenistico si credeva che gli dèi vivessero sull’Olimpo e da lassù si dilettassero a guardare le vicende degli uomini; come non è un caso che l’intera storia del Cristianesimo si basi su pochi ma importanti momenti intorno alle montagne: dal Sinai di Mosè all’Ararat in cui Noè posò l’arca dopo l’alluvione. Ma più di tutto, ciò che ci rimanda alla sacralità delle montagne sono i monasteri arroccati nei massicci montuosi in Pakistan, Tibet e Nepal dove ancora oggi i locali prima di qualsiasi spedizione alpinistica si lasciano andare in rituali propiziatori rivolti agli spiriti del posto. Perché lì dal Nanga Parbat all’Himalaya tutto si permea di un sentimento ieratico. La montagna è ascesi, è il punto più vicino per toccare il cielo, è il modo più vero con cui l’uomo sfida se stesso, è la linea di demarcazione tra la vita e la morte, tra il paradiso e l’inferno, tra lo spirito e il corpo.
Sono quattordici le montagne più alte al mondo, quelle che comunemente vengono chiamate gli “Ottomila” perché tutte superano gli ottomila metri di altitudine, e sono tutte concentrate nell’Asia centro-meridionale. Poterle scalare è il sogno di ogni alpinista. Pochi, però, sono quelli che ce l’hanno fatta e sono tornati per poterlo raccontare. Perché il bello o il brutto di queste montagne è che non basta salirci, bisogna anche essere in grado di scendere.
La prima scalata vincente di cui abbiamo notizia avvenne nel giugno del 1950 quando due francesi, Maurice Herzog e Louis Lachenal, raggiunsero la vetta dell’Annapurna senza ossigeno. Un’impresa entrata nella storia che ha ispirato generazioni di alpinisti e semplici appassionati. Dopo di loro, una dopo l’altra tutte e quattordici sono state conquistate perché come scriveva Goethe: “I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi.” Ma la montagna non regala nulla e per i tanti che con successo hanno raggiunto le vette più alte ce ne sono altrettanti che una volta provato a scalarle non hanno fatto più ritorno. Passo dopo passo il peso della sfida diventa parossistico: il fiato più corto, la vista, con gli occhiali appannati dal gelo, scarsa, e la stanchezza si sposa con la fame. Il vento freddo viaggia, colpisce e abbatte; solleva nuvole di neve nell’aria che trafiggono quelle entità vulnerabili e così sfrontate da aver provato a conquistare la vetta. Gli arti congelati da perdere ogni sensibilità. La stanchezza a governare ogni lento movimento con il solo pensiero liberatorio di fermarsi e rimanere lì per sempre come una nuova parte della roccia. Ma i pochi eroici avanzano e continuano la corsa contro il tempo e le proprie energie. L’errore è credere che non l’abbiano voluto, e per qualche scherzo del destino, colpiti dal desiderio di scoperta e da un’inesauribile voglia di sfidare se stessi e il mondo, sono lì in attesa che prima o poi la vetta si riveli.
Capitolo I – La vita di Denis Urubko
Non mi piacciono le montagne. Ho perso tanti amici lì. Mi piace l’azione. E sono libero di decidere come esercitare la mia libertà.
Denis Urubko
Fosse stata detta da una qualsiasi persona questa frase rasenterebbe una banale ovvietà, ma scritta da Urubko ha il sapore di un’apostasia. Nel gotha degli alpinisti che sono riusciti a scalare tutti gli Ottomila c’è anche lui, Denis Urubko. A onor del vero, non solo è riuscito a scalarli, ma c’è riuscito senza l’utilizzo dell’ossigeno. Un’impresa epica fuori dall’ordinario e allo stesso tempo qualcosa di naturale, di animale, di genuino. Perché nell’Urubko pensiero “l’ossigeno è il doping dell’alpinismo”. Un’idea che sta alla base delle sue avventure.
Denis Urubko è stato il primo a compiere la salita invernale sul Makalu e sul Gasherbrum II, e ha aperto tre nuove vie su tre diversi Ottomila. Ma ridurre tutto ad un elenco di successi è limitativo, se non svilente. La complessità di Urubko va al di là dei traguardi; non può essere descritta semplicemente con i successi. In questo caso è più utile partire dai fallimenti perché solo tramite questi si può comprendere il valore di ciò che ha realizzato.
Fin da bambino le montagne erano la sua valvola di sfogo. Nato in un paesino russo nel cuore del Caucaso, passava le giornate con il padre nei boschi e sulle cime delle montagne, gli unici luoghi in cui non si sentiva piccolo e debole. Lì immerso nella natura, guardando tutto e tutti dall’alto di una vetta si sentiva libero. Un giorno entrò in una piccola libreria e come spinto da una mistica forza si avvicinò ad uno scaffale, aprì un libro e iniziò a sfogliarlo. Non c’era nessuna ragione per cui scelse quel libro piuttosto che un altro, ma sta di fatto che scelse proprio quella rivista. Iniziò a leggerla, pagina dopo pagina finchè non si fermò su due articoli: il primo era dedicato alla solitaria di Messner sul Nanga Parbat e il secondo alla via aperta da un gruppo di alpinisti kazaki sul Dhaulagiri. In quel momento nella mente di Denis piccoli pensieri, sogni mai realmente concepiti e desideri mai realmente pronunciati si mossero, si agitarono. Come un vortice si avvicinarono e collisero fino a formare un’idea: diventare un alpinista.
Si iscrisse al club alpino di Vladivostok. La scuola sovietica ha una filosofia estremamente rigida rispetto alle altre. Denis seguì severi sistemi di allenamento e selezione perché per entrare a far parte delle cordate di punta e partecipare alle spedizioni importanti bisognava essere i migliori e conoscere le regole del gruppo. Iniziò così il suo percorso, ma non fu facile. Scoprì il lato oscuro della montagna: le valanghe che lo buttavano giù e gli ruppero le gambe, i congelamenti e la paura di perdere i compagni, di non farcela, di rimanere bloccato e perso. Fu il suo percorso di “purificazione”; spedizione dopo spedizione prese coscienza di sé, del suo corpo e della sua mente. Si allenò, si convinse e ogni volta osò di più. Cadde e si rialzò, non importa se le valanghe lo buttavano a terra, lui continua a proseguire, instancabile, tenace. Si stava preparando per quello che sarebbe venuto, e quello che sarebbe venuto si chiamava Kazakistan.
Arrivò appena ventenne. Era solo e senza niente; dormiva per strada e mangiava quello che gli capitava. Il suo corpo era ormai un dipinto liturgico in cui ogni cicatrice era un’icona ortodossa. Riuscì con enormi sforzi ad arruolarsi in un gruppo sportivo militare in modo da potersi dedicare esclusivamente all’alpinismo. Non fu un periodo facile, era completamente in balia degli eventi e viveva alla giornata. Ma a volte quando si è al limite delle possibilità, ecco che nuove forze accorrono.
Lo Snow Leopard era un premio conferito a chi riusciva a scalare i 5 monti più alti dell’ex Unione Sovietica: Khan Tengri, Pik Korženevskaja, Pik Lenin, Pik Ismail Samani e Pobeda. Era un riconoscimento importante, ambito da tutti gli alpinisti e più di tutti da Simone Moro. L’alpinista italiano ne era venuto a conoscenza grazie a Anatolij Bukreev, suo compagno insieme a Dimitri Sobolev durante il tragico tentativo di ascesa dell’Annapurna nel 1997. In quella sfortunata impresa il gruppo fu colpito da una valanga e solo l’italiano si salvò. Due anni dopo, Simone Moro era in Kazakistan per reclutare una squadra, deciso a vincere lo Snow Leopard in onore del suo caro amico Anatolij. Arrivato nel club alpino kazako, insieme al suo compagno d’avventura Mario Curnis, scelse due alpinisti locali per compiere quell’impresa: uno era Andrej Molotov e l’altro era Denis. In quarantadue giorni salirono tutti e cinque i picchi. Fu l’inizio di una grande amicizia. L’incontro con Simone Moro gli cambiò la vita; con l’aiuto dell’alpinista bergamasco ampliò la sua conoscenza sull’alpinismo e raffinò la sua tecnica. Insieme crearono un sodalizio che li portò sulle Alpi, sul Lhotse e infine sull’Everest. Nel frattempo, nel centro alpino kazako stavano programmando di salire tutti gli Ottomila, così Urubko iniziò un duro allenamento fisico. Con i suoi colleghi kazaki salì per le vie normali il Gasherbrum I e il Gasherbrum II, e l’anno successivo, nel 2002, il Kangchenjunga e il Shisha Pangma. Ma non era quello che Urubko cercava, quello che avrebbe voluto fare. Durante la scalata del G2 chiese al capo spedizione il permesso di tentare un’ascensione in velocità: impiegò 7 ore e mezza a salire e 4 a scendere. Ecco cosa desiderava! Era questa la sua idea, la sua concezione dell’alpinismo. Con Moro avevano sognato spesso di scalare la parete sud del Broad Peak, ma il capo del club voleva che seguissero solo le vie normali. Così nell’estate del 2003 Denis Urubko prese la decisione che gli cambiò per sempre la vita. Andò dal responsabile e si licenziò. Non voleva più sottostare a nessuna regola. Da quel momento avrebbe scelto da solo il suo percorso.
Capitolo II – La parola “primo”
Di nuovo libero e senza nulla. Non uno stipendio, non compagni per le scalate. Ancora una volta in balia degli eventi. Continuava a sognare la parete sud del Broad Peak, ma da solo come fare? Ecco allora che quando tutto sembrava perduto, la Provvidenza o chi per lei intervenne. Questa volta lo fece nelle vesti di un vero uomo sovietico. Muscoloso, sguardo di ghiaccio, mandibola granitica, il suo nome era Sergey Samoilov. Fu un incontro straordinario per Denis, perché Sergey gli disse le uniche cose che aveva bisogno di sentire: “Vorrei fare qualcosa di nuovo e interessante in Himalaya. Perché non andiamo insieme?”
Si organizzarono. Trovarono gli sponsor e vendettero parte della loro attrezzatura in Islamabad. Non prima però di aver partecipato alla spedizione di salvataggio di Jean-Christophe Lafaille proprio sul Broad Peak. Nel 2005 a 32 anni Urubko era pronto a realizzare il suo sogno: lunedì 25 luglio alle 11:30 lui e Samoilov raggiunsero la vetta per una nuova via sul versante sudovest. L’impresa richiese sei giorni di ininterrotta salita in stile alpino in condizioni meteo critiche, con forte vento e pericolo di valanghe, affrontando gli ultimi due bivacchi senza tenda vista l’impossibilità di montarla. Ma il sogno era stato raggiunto e Urubko si consacrò definitivamente come uno dei più forti alpinisti di sempre. È interessante, parlando di Urubko, l’espressione “più forte”, perché, a differenza di molti, per Urubko l’alpinismo rientra a pieno titolo nell’etichetta “sport”.
“In alpinismo tutti usano la parola “primo”. Il primo in vetta di una nazionalità, il primo amputato, il più veloce, il più giovane o il più vecchio, il primo scalatore in cima con un dito nel naso… il primo scalatore con il dito sinistro nel naso. Voler essere “il primo” o “il più” sono espressioni dello sport. Per questo motivo possiamo definire l’alpinismo come uno sport. Come lo è la bici: qualcuno partecipa alle gare (fa sport), mentre ad altri piace fare solo giri culturali (e dicono che “non è sport”). I tempi passano, cambiano. Cento anni fa con i materiali che c’erano non era pensabile un tentativo senza ossigeno per Mallory e Irvine. Ma la tecnologia è avanzata e noi abbiamo orizzonti nuovi. Nel 1982 la spedizione sovietica ha scalato una via straordinaria sulla parete dell’Everest, un record incredibile! Erano con l’ossigeno quasi tutti e non ho nulla da dire, fu una storia eroica, grandissima! Ma un ragazzo, Vladimir Balyberdin, l’ha salito senza ossigeno, ha lavorato tanto in attacco e faticando più di tanti altri. Quest’avventura ha lasciato agli alpinisti sovietici una maggiore sensibilità”.
E qui entra in gioco il principio fondamentale della sua filosofia: l’ossigeno è doping. Come per tutti gli sport, anche nell’alpinismo non si può barare. Ad alta quota l’ossigeno può fare miracoli: rende il sangue più fluido, il che evita la formazione di liquidi nei polmoni e facilita l’espulsione di tossine dal corpo, affaticando meno i reni.
“Mi dispiace vedere la relazione strana che ha la comunità alpinistica. Gli atleti di boxe, corsa, sci, ciclismo o altre discipline che usano il doping sono disprezzati, suscitano reazioni di disgusto e sono puniti con sanzioni anche pesanti dalle autorità ufficiali. Nell’alpinismo invece chi usa l’ossigeno diventa un eroe. Sono davvero sorpreso da questa inversione psicologica. Io riconosco gli alpinisti che nell’alpinismo moderno usano ossigeno supplementare dichiarando la loro salita sportiva, ma non li rispetto“.
Non ha mezzi termini Denis. È una persona ruvida, tagliente, diretta come solo le persone oneste possono esserlo. Del resto, quando sei appeso ad una corda con il vuoto sotto non puoi mentire né giocare d’astuzia.
Padrone di se stesso, Urubko ha definito le sue regole: solo gli Ottomila, stile alpino, piccola squadra e vie nuove. Negli anni successivi conquistò una dopo l’altra tutte le vette più alte del mondo. Nel 2009 la consacrazione ufficiale: completò la salita dei quattordici ottomila senza ossigeno con l’apertura di una nuova via sulla parete sud-est del Cho Oyu con Boris Dedeshko, vincendo il premio Piolet d’Or. Se in Kazakistan pochi erano interessati alle sue nuove vie e ai suoi traguardi, nel resto del mondo tutti lo ammiravano. Divenne cittadino del mondo. Veniva invitato ai grandi incontri e cerimonie, gli chiedevano segreti e curiosità sulle sue ascensioni; in poche parole, divenne un punto di riferimento, un artista consacrato. La sua trasformazione era completa: all’inizio era solo scoperta delle montagne, della realtà che lo circondava; poi era giunta la dimensione sportiva, la scoperta e lo sviluppo del proprio corpo per arrivare a traguardi mai raggiunti; e infine ora era approdato alla dimensione artistica. Non era solo raggiungere la vetta in una maniera diversa, ma era lasciare qualcosa al mondo, alle nuove generazioni. La consapevolezza che si può spingere ed osare; fare qualcosa di nuovo e bello con la sovrana e ingenua tenacia degli scopritori.
Capitolo III – Il ritiro
Gennaio 2018. Elizabeth Revol e Tomasz Mackiewicz sono sul Nanga Parbat, in Pakistan. Sono i primi a completare la salita invernale di un Ottomila lungo una nuova via e lo stanno facendo su quella che è nota come la “Montagna Assassina”. Durante la discesa, però, qualcosa va storto. Il gelo e le valanghe dividono i due che non riescono a raggiungere il Campo 1. Sono in pessime condizioni. Tomasz inizia a mostrare segni di spossatezza, congelamento e cecità da neve; è costretto a fermarsi a circa 7.400 metri. Elizabeth sa che non può fermarsi, deve scendere o nessuno dei due potrà salvarsi. È la dura legge di questa montagna. Dal campo base parte una chiamata di soccorso per formare una squadra di salvataggio. Sono due i volontari eroi: Adam Bielecki e Denis Urubko.
“Abbiamo trovato Elisabeth a seimila metri, 6.050 circa, sopra il Campo 2. Avevamo appena superato il Campo 2, a circa 5.950 metri. Quando siamo arrivati era completamente buio, non si vedeva nulla. Alla radio qualcuno ci ha detto di aver visto una luce scendere. Cominciai a urlare – c’era vento, e sentimmo una voce nell’oscurità – era un vero miracolo. È stata una grande gioia perché sapevamo che eravamo vicini a lei e che potevamo aiutarla: è una donna molto forte ed era da sola, in una situazione davvero estrema. È riuscita a scendere lentamente fino a quando ci siamo incontrati e in quel momento ci siamo resi conto che la nostra missione era compiuta. Tutto è stato un miracolo”.
La squadra di soccorso riesce a portare in salvo la donna, ma Tomasz disperso sulla montagna, non scenderà più. L’eroico salvataggio lascia delle altre cicatrici su Urubko. E questa volta non si rimarginano. Non ha più 30 anni, ha una moglie e dei figli ora e deve badare a loro. Sa che le montagne non sono domabili e che la più importante regola di ogni scalatore è che un buon alpinista è quello che resta vivo. Ha perso troppi amici lassù, è ora di dire basta. Ma il suo addio all’alpinismo estremo arriva come una scure su tutta la comunità mondiale. Come un guerriero d’altri tempi che ha vissuto mille battaglie non ha mezzi termini, non parla con metafore e allusioni; la sua penna è affilata come le rocce himalayane. Scrive una lettera, saluta tutti, accusa molti. Chiude l’amicizia con il suo sodale di lunghe scalate, Simone Moro, definendolo una “zavorra”. Critica molti suoi colleghi di essere degli irresponsabili e di speculare su di lui per mettersi in mostra. “Non voglio spendere ancora tre mesi in compagnia di perdenti, bugiardi, deboli e pigri”, scrive. Si sente tradito. Abbandona per sempre quelle vette con l’amaro nel cuore, sapendo comunque di aver lasciato un segno e con la consapevolezza che alla fine per un uomo ciò che conta davvero è l’affetto dei propri cari e prendersi cura di loro. Le persone care non ci saranno in eterno, le montagne invece saranno sempre lì in attesa di altri impavidi pronte a sfidarle. Denis Urubko, con il suo ritiro, ha lasciato tutti senza ossigeno, esattamente come era solito affrontare le sfide.