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Un orso ha ucciso un uomo, ma non dobbiamo ricominciare la guerra alla natura
La tragica morte di Andrea Papi, runner ucciso da un orso in Trentino, ha riaperto il dibattito sulla convivenza tra essere umano e grandi carnivori.
Un orso ha ucciso un uomo in Trentino, e questa è una tragedia sotto tutti i punti di vista. Per la vittima innanzitutto, Andrea Papi, la cui giovane vita è stata interrotta in modo improvviso e violento, per la sua famiglia e per la comunità di cui faceva parte, scossa dal lutto e da una sensazione di vulnerabilità sconosciuta fino a pochi giorni fa. Ma anche per l’orso che lo ha ucciso, per il quale è stata emessa una condanna a morte, e per gli altri orsi e grandi carnivori in generale, che già prima di questo incidente erano mal sopportati da una grossa fetta di popolazione italiana, e che dovranno ora far fronte ad un esacerbato clima di odio. Questa tragedia, però, rispettando il dolore che ha provocato, va analizzata e contestualizzata, compresa in qualche misura, cercando per un momento di mettere da parte l’orrore che un evento simile, l’uccisione di un uomo da parte di un grande carnivoro, può suscitare.
Cosa è accaduto in Trentino
Andrea Papi, 26 anni di Caldes, in provincia di Trento, è stato ucciso la sera del 5 aprile da un orso, in cui si è imbattuto al ritorno da una sessione di allenamento tra i boschi del monte Peller, che fa parte delle Dolomiti di Brenta. Fin da subito, dai segni trovati sul corpo dell’uomo, si è ipotizzato l’attacco da parte di un orso. Attacco poi confermato dai risultati dell’autopsia, che ha individuato in un profondo taglio al collo la ferita fatale. Il presidente della provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti, ha immediatamente firmato un’ordinanza che prevede la cattura e l’abbattimento dell’orso in seguito al riconoscimento genetico. Le analisi genetiche, secondo quanto riferito dalla procura di Trento, hanno rivelato che a uccidere Papi è stata l’orsa nominata Jj4, femmina di 17 anni, figlia di Joze e Jurka e sorella di Jj1, ucciso in Germania nel 2006. I carabinieri forestali sono ora alla ricerca dell’orsa, il cui radiocollare è attualmente scarico.
I boschi possono essere pericolosi
La dinamica dell’attacco non è ancora chiara, e alcune risposte non le avremo mai. È però molto probabile che si sia trattato di una fatalità, un evento eccezionale e sfortunato. Sembra, secondo le ricostruzioni, che l’orso fosse dietro una curva coperta, e il giovane, correndo, gli sia sbucato davanti all’improvviso, spaventando l’animale e causandone la reazione. Biologia ed etologia dell’orso ci suggeriscono che non si è trattato di un attacco premeditato, di un’imboscata da parte del grande animale. La principale causa di attacchi dell’orso bruno agli esseri umani non è la predazione, ma la sua reazione alla sorpresa. All’interno di una fitta foresta possiamo essere invisibili fino all’ultimo momento, specie avanzando controvento, rischiando di sorprendere un orso dietro una curva. Non è un caso che nei negozi di Yellowstone si vendano agli escursionisti campanelli che tintinnano a ogni passo, per segnalare la propria presenza ai plantigradi. La morte del giovane runner ci ricorda, soprattutto, che le foreste e le montagne possono essere luoghi pericolosi, su cui non possiamo esercitare un totale controllo, e nei quali, semplicemente, il rischio zero non esiste. È però necessario cercare di coesistere, investendo sull’informazione sulla preparazione di chi frequenta determinate aree, perché è ormai dimostrato che eliminare tutti i predatori è controproducente.
Il ritorno dei predatori
Non abbiamo memoria, i nostri ricordi collettivi vanno solitamente indietro di poche generazioni, per fare paragoni con la situazione attuale. Conosciamo solo un’Europa addomesticata, inevitabilmente plasmata da millenni di attività umana. Il vecchio continente è però così come lo vediamo oggi da pochissimo tempo, un intervallo temporale brevissimo, nella storia della vita sulla Terra. Per centinaia di migliaia di anni l’Europa fu un’enorme distesa di foreste e praterie, steppe e paludi, ghiacciai, fiumi e laghi. Non ha senso prendere come metro di paragone quella natura che ha toccato picchi di depauperamento allarmanti. Gli orsi sulle Alpi c’erano, vi hanno vissuto a lungo, fino a che non sono stati sterminati. Ora la scienza ci dice chiaramente, inequivocabilmente, che i grandi carnivori servono, sono fondamentali per l’equilibrio di un ecosistema. Non possiamo considerare la natura il nostro giardino di casa e renderla a misura d’uomo ad ogni costo. Anche perché faremmo un torto innanzitutto a noi stessi, un ambiente degradato nuoce infatti a tutte le specie, compresa la nostra. Proprio per invertire questo processo distruttivo sono stati istituiti progetti di conservazione e, per determinate specie, di reintroduzione.
Perché l’orso è stato reintrodotto
È il caso del progetto Life Ursus, finanziato dall’Unione europea e molto criticato in questi giorni, che tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila ha ricostruito una piccola popolazione di orsi sulle Alpi italiane, a partire da dieci esemplari sloveni, proprio laddove si aggiravano braccati gli ultimi orsi autoctoni nel Trentino occidentale alla fine degli anni Novanta. L’orso bruno era infatti estinto per la caccia sfrenata su gran parte delle Alpi, sterminato nel giro di mezzo secolo o poco più, tra la metà e la fine dell’Ottocento. Gli ultimi abbattimenti, intorno al 1970, riguardano giovani maschi in dispersione dal Trentino occidentale. Non c’erano più orsi nelle Alpi italiane. “Il progetto Life Ursus, che portò alla rinascita dell’orso in Trentino attraverso il trasferimento di orsi dalla Slovenia, fu l’ultima, attentamente meditata, fortemente voluta e scrupolosamente eseguita, azione di una lunga rincorsa volta a salvare l’orso bruno delle Alpi dall’estinzione”, ha scritto nel libro In nome dell’orso, Matteo Zeni, ex guardia forestale.
Quanto sono pericolosi gli orsi
Quella di cui è stato vittima Andrea Papi è la prima aggressione mortale di un orso in Italia. Secondo l’articolo scientifico Brown bear attacks on humans: a worldwide perspective, pubblicato su Nature nel 2019, nel mondo tra il 2000 e il 2015 si sono verificati 664 attacchi di orsi, di questi 95 sono risultati mortali, di cui 19 in Europa (undici in Romania, due in Svezia ed Ucraina, uno in Grecia, Bulgaria, Polonia e Finlandia), 24 in Nord America e 52 nell’area Est (Russia, Iran e Turchia). L’attacco mortale da parte di un orso è dunque un fenomeno raro, anche in Paesi come Svezia e Romania che ospitano migliaia di orsi, contro i cento che vivono in Trentino, che però ha un grande risalto mediatico ed emotivo. Forse perché, suggerisce David Quammen (sì, quello che ci aveva messo in guardia sulle pandemie con Spillover) nel libro Alla ricerca del predatore alfa, l’orso bruno, come altri grandi carnivori, ci rammenta un aspetto della condizione umana che abbiamo dimenticato, o meglio occultato attraverso lo sterminio dei predatori: che possiamo essere anche delle prede e che non possiamo autoescluderci dalla catena trofica. “Sei miliardi di esseri umani gravano oggi su questo Pianeta – scrive Quammen – ai predatori alfa si prospetta l’estinzione. Già ora sono spinti ai margini, ridotti di numero, privati del loro spazio vitale, costretti in rifugi insufficienti e qua e là sterminati. Questa tendenza prelude al definitivo distacco da Homo sapiens, e alla fine del nostro antico rapporto con loro. In tutta la nostra storia come specie – per decine e centinaia di millenni, per quasi due milioni di anni – noi abbiamo tollerato la presenza pericolosa, problematica, dei grandi predatori, trovando per loro ruoli nel nostro universo emotivo. Ma oggi la nostra numerosità, la nostra potenza, il nostro solipsismo ci hanno portato a un punto in cui la tolleranza non è necessaria e pericoli del genere sono inaccettabili”.
(Ri)abituarsi al selvatico
In altre aree del Pianeta quel che traspare dal rapporto tra comunità umane tradizionali e grandi predatori, in molti casi appartenenti a specie ben più pericolose di quelle in cui possiamo imbatterci noi, è una forma di rispetto, che talvolta sfocia perfino nella venerazione, le cui radici affondano nell’antichità, ma che si basa sulla consapevolezza del rischio insito nella condivisione di un ambiente naturale. Ecco, quello che noi abbiamo perso, a causa dell’estinzione o della decimazione di certe specie, è l’abitudine a coesistere, a conoscere l’altro, a interagire abbastanza per maturare un certo grado di diffidenza reciproca. In Italia, ad eccezione di alcune zone come l’Abruzzo, non siamo più abituati a condividere il paesaggio con grandi animali potenzialmente pericolosi. Eppure i grandi animali stanno tornando, anche grazie a progetti di rewilding che stanno riscuotendo successo in tutta Europa. “Il rewilding, a differenza del conservazionismo, non ha un obiettivo fisso: non è guidato dai gestori umani ma dai processi naturali. Scopo principale del rewilding è quello di ripristinare interazioni e dinamiche ecologiche nella più ampia misura possibile. In altre parole, il principio ecologico dietro il rewilding è il ripristino di ciò che gli ecologi chiamano diversità trofica”, spiega George Monbiot nel libro Selvaggi. Gli effetti che alcune specie hanno sull’intero ecosistema in cui abitano sono sorprendenti. Predatori e grandi erbivori hanno, in alcuni casi, mutato la natura del terreno, la chimica degli oceani e la composizione dell’atmosfera. In seguito a queste scoperte si è dovuto riconsiderare un vecchio modello di conservazione e si è rivelato sempre più importante reintrodurre grandi predatori e altre specie scomparse, per cercare di ripristinare quei delicati meccanismi ecologici da cui dipende anche il nostro benessere.
Un’altra strada per la convivenza
L’orsa che ha ucciso Papi, Jj4, detta Gaia, verrà uccisa. L’auspicio è che questa azione sia però ragionata e ritenuta necessaria, non una mera vendetta, poiché in quel caso sarebbe difficile celare l’irrazionalità del volersi vendicare di un animale selvatico, perpetrata da una specie che fa proprio della razionalità il suo vanto. Uccidere l’orso che ha ucciso Papi, nel caso si tratti davvero di un animale pericoloso e aggressivo, sarebbe comprensibile, in assenza di alternative, ma andrebbero preferite soluzioni non cruente. In caso contrario si tratterebbe, usando le parole di Baptiste Morizot, di “reagire attraverso la paura, di ristabilire un ordine del mondo e di vendicare la violazione di un tabù”. “Le due opzioni fornite dalla cultura occidentale per interpretare l’incontro con l’orso (affrontare la bestia o accogliere l’amico) – scrive Baptiste Morizot nel libro Sulla pista animale – rinviano entrambe a una concezione distorta delle nostre relazioni con il vivente: da una parte il mito dispotico che stabilisce che bisogna sconfiggere la natura per civilizzarla; dall’altra un’ecologia arcadica che sogna una natura priva di ostilità. Ma gli animali selvatici non sono nostri amici, come nell’illusione contemporanea che erige i nostri animali domestici a modello di ogni animalità; non sono nemmeno bestie da sconfiggere per realizzare il nostro destino di civilizzatori. Bisogna cercare un’altra strada, altri modelli per pensare le nostre relazioni con essi, come la loro alterità”. A noi tutti, ma in particolare a coloro che condividono il territorio con grandi carnivori, si chiede oggi di rivedere in parte le proprie abitudini e il loro rapporto con gli spazi naturali, e una forma di coraggio che ci consenta di affrontare un’alterità senza giungere alla conclusione che, siccome è pericolosa, costituisca un nemico assoluto.
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