La mentalità è cambiata, anche in Italia: per trattenere i talenti bisogna sviluppare la felicità in azienda. Lo dimostra l’Osservatorio BenEssere e Felicità.
Tra gli italiani che hanno un lavoro, il 38,5 per cento ha intenzione di cambiarlo nell’arco del prossimo anno. Questo è uno dei dati emersi dall’Osservatorio BenEssere e Felicità condotto dall’associazione Ricerca Felicità.
Alla base del fenomeno delle grandi dimissioni c’è la ricerca di migliori condizioni economiche, ma anche di flessibilità, equilibrio tra lavoro e vita privata, meritocrazia. In una parola, della felicità in azienda.
Riconoscimento dei meriti, passione, flessibilità, equilibrio con la vita privata. In una parola, felicità in azienda. Sono questi i valori che le persone cercano nel proprio luogo di lavoro, oltre allo stipendio e ai benefit. E, quando faticano a trovarli, non esitano a licenziarsi per cercare opportunità migliori altrove. Quasi quattro italiani su dieci stanno meditando su questa possibilità, dimostrando che le grandi dimissioni non sono soltanto una narrazione giornalistica ma un fenomeno molto concreto, anche nel nostro paese. A fornirci tanti dati interessanti sul presente e sul futuro del lavoro è l’Osservatorio BenEssere e Felicità condotto dall’associazione Ricerca Felicità.
Le grandi dimissioni arrivano anche in Italia
Nel mondo delle aziende e delle risorse umane non si parla d’altro. Il fenomeno delle grandi dimissioni, esordito negli Stati Uniti, ha travolto in pieno anche il nostro paese. Dalle note trimestrali sulle tendenze dell’occupazione pubblicate dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali si nota che la curva delle cessazioni dei rapporti di lavoro ha virato verso l’alto lungo l’intero corso del 2021. Per avere un termine di paragone, da gennaio a settembre del 2021 oltre 1 milione e 300mila persone si sono licenziate; nello stesso periodo dell’anno precedente erano un milione. La percentuale di dimessi sul totale dei lavoratori dipendenti ha superato il 3 per cento nell’ultimo trimestre dello scorso anno: “un numero mai visto nell’ultimo decennio”, fa notare lavoce.info.
L’Osservatorio BenEssere e Felicità conferma questi dati. Tra coloro che hanno già un lavoro, il 38,5 per cento ha intenzione di cambiarlo nell’arco del prossimo anno. Questa percentuale è pressoché omogenea all’interno del campione, fatta eccezione per professionisti e partite Iva, per i quali si limita al 28 per cento. Quasi la metà dei millennial (cioè i nati tra il 1980 e il 2000) ha intenzione di cambiare, ma la percentuale è consistente anche tra i baby boomer (nati tra il 1946 e il 1964): si attesta infatti sul 18 per cento, poco meno di un intervistato su cinque.
Perché così tanti italiani vogliono cambiare lavoro
Le statistiche ministeriali, però, ci raccontano soltanto una parte della storia. L’Osservatorio cerca di scavare sotto la superficie per rispondere a una domanda: perché gli italiani sono così propensi a cambiare lavoro? Di sicuro la ricerca di migliori condizioni economiche ha un peso, ma c’è anche molto altro. Le motivazioni principali sono la mancanza di sviluppo personale o professionale e di carriera, la mancanza di riconoscimento e la paura del burnout, fattore ampiamente al primo posto tra gli imprenditori e manager con oltre il 43 per cento. Tutti fattori strettamente connessi alla felicità in azienda.
“Le generazioni Millennials e Zeta vanno gestite in maniera diversa da quelle precedenti. Il diritto del lavoro e il sistema generale devono prenderne atto: è necessario un cambio di mindset verso una sartoria gestionale e la cultura aziendale che funga da faro di riferimento. Il ‘come stiamo’ e la questione del benessere sono ineludibili e guidano le nostre scelte. E non si tratta solo di benessere fisico ma anche relazionale, psicologico, emotivo”, spiega a LifeGate Elisabetta Dallavalle, presidente dell’associazione Ricerca Felicità. “Le persone desiderano essere artefici dei loro destini lavorativi che possono o meno sovrapporsi a quelli dell’organizzazione nella quale transitano”.
“Sempre più di frequente le persone scelgono le aziende dove vogliono dare il loro contributo e che vogliono accompagnare nella crescita. Sentirsi davvero ascoltati, riconosciuti, coinvolti, inclusi è una parte indispensabile della relazione con le organizzazioni. Poter crescere e sapere esattamente che trasparenza e meritocrazia guidano le carriere delle persone è fondamentale per investire ogni giorno le proprie energie in un percorso sostenibile”, le fa eco Elga Corricelli, co-fondatrice dell’associazione Ricerca Felicità.
Felicità in azienda, la meritocrazia è un tasto dolente
La meritocrazia è un tasto dolente. Oltre il 20 per cento degli intervistati si ritiene poco d’accordo con l’affermazione “i miei meriti vengono sempre riconosciuti dai miei leader” e meno di un terzo si dichiara molto d’accordo (con un voto di 5 o 6, su una scala da 1 a 6). A soffrire di più per lo scarso riconoscimento sono i millennals e la generazione X, cioè le figure a metà carriera. “Deve essere riconosciuto il dare della persona, la restituzione quotidiana che ogni individuo genera all’interno dell’organizzazione”, puntualizza Elisabetta Dallavalle.
Ma quali sono i metodi migliori per premiare i risultati? “A parte lo stipendio, che è uno strumento oggettivo ma non è il più importante per tutti, assume grande importanza il fatto di verbalizzare, riconoscere pubblicamente il merito alla persona durante i meeting oppure in piccoli momenti gioiosi organizzati ad hoc”, propone Sandro Formica, co-fondatore e direttore accademico dell’associazione Ricerca Felicità. “Spesso gli strumenti esistono ma non vengono usati nel modo corretto”, fa notare Elga Corricelli. “Pensiamo ad esempio al feedback. Se usato costantemente, sia nel riconoscimento sia nel miglioramento, è uno strumento potente. È necessario allenarlo. A tale scopo, l’ascolto dei collaboratori può essere trasformativo per l’azienda stessa: la cosa più semplice potrebbe essere chiedere ai collaboratori come preferirebbero veder riconosciuti i propri meriti. Così facendo si lavora meglio, si cresce insieme e si innova velocemente”.
Flessibilità, la parola d’ordine per la felicità in azienda
È vero che il 40 per cento dei nostri connazionali pensa di cambiare impiego, ma è vero anche che la maggioranza – il 60 per cento –si accontenta di quello che ha già. Proprio a questa seconda categoria l’Osservatorio BenEssere e Felicità ha rivolto una domanda: quali sono i fattori che andrebbe a ricercare in un ipotetico nuovo lavoro? Al primo posto ci sono migliori condizioni economiche (47,3 per cento) e minore stress (33,3 per cento), seguiti dalle opportunità di carriera (19,7 per cento), una maggiore flessibilità di orario (19,4 per cento) o opzioni per smart working (14 per cento).
Proprio la flessibilità è un valore a cui tanti non vogliono più rinunciare. E che può essere coniugato anche con il rientro in ufficio, dopo due anni di lavoro da remoto per l’emergenza sanitaria. “Le persone cercano la flessibilità di orario per una migliore work-life integration”, fa notare Formica. “Questo non vuol dire non andare in ufficio, ma andare in ufficio in modo più flessibile, magari con orari completamente aperti come stanno già facendo alcune aziende”.
“Il tema della flessibilità è ampio e coinvolge sia luoghi di lavoro, sia gli orari e i processi”, conferma Elga Corricelli. “Ora è chiaro non ha alcun senso sedersi ad una scrivania in un ufficio se non si alimenta la condivisione, la co-costruzione, la formazione, il knowledge sharing, la visione della cultura aziendale. La maggioranza di noi fa un lavoro intellettuale e la tecnologia abilita gli strumenti per poterlo fare ovunque: il valore di trovarsi insieme stimola l’intelligenza collettiva e il desiderio di condividere soluzioni ed esperienze per accogliere il contributo di tutti”.
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