
Il rapporto annuale dell’agenzia Irena indica che il 92,5 per cento dei nuovi impianti installati nel 2024 è legato alle fonti rinnovabili.
Addio al carbone e stop ai sussidi ai combustibili fossili per gli stati isola del Pacifico, ma l’Australia fa resistenza.
I leader dei paesi del Pacifico si sono riuniti a Pohnpei, capitale della Micronesia, per discutere di sicurezza regionale, integrazione economica, ma soprattutto di cambiamenti climatici durante il 47esimo Pacific islands forum. Le conseguenze del riscaldamento globale, infatti, si fanno sentire in modo evidente in questa regione, da molto tempo. Di qualche mese fa è la notizia di cinque atolli delle isole Solomon scomparsi per sempre a causa del progressivo innalzamento del livello dei mari.
I capi di stato e di governo dei quattordici arcipelaghi più Australia e Nuova Zelanda hanno definito un piano in cui ogni stato si impegnerà a non approvare nuove miniere di carbone, a estrarre altri combustibili fossili e a non fornire alcun sussidio alle società e alle attività che ne promuovano il consumo.
Il documento pone le basi per garantire l’accesso all’energia pulita per tutti, entro il 2030 definendo un accordo quadro sulle energie rinnovabili in cui saranno indicate le misure da adottare per raggiungere tale obiettivo. I leader si impegneranno a creare un fondo di compensazione destinato alle comunità che hanno sofferto o soffrono per le perdite connesse ai cambiamenti climatici, senza dimenticare le problematiche legate all’adattamento e alle migrazioni causate dagli stravolgimenti del clima.
Un trattato all’avanguardia, ambizioso. Il Pacific island climate action network (Pican), che ha redatto il documento, sottolinea che si tratta di “un esempio pionieristico per il resto del mondo”, come riporta il quotidiano britannico Guardian. L’obiettivo è far diventare operativo il trattato già a partire dal 2018 e costruire una nuova leadership dei paesi del Pacifico che sono al lavoro per incrementare gli sforzi per affrontare i cambiamenti climatici.
La proposta “pacifica” si scontra con l’attuale politica energetica australiana messa sotto accusa dagli altri membri del Pacific islands development forum per la poca propensione ad abbandonare i combustibili fossili e in particolare il carbone. Pesa, dunque, la determinazione della principale isola del Pacifico nel continuare le attività di estrazione ed esportazione di carbone, confermate anche dalla recente autorizzazione all’avvio della miniera di carbone Carmichael, la più grande del paese, di proprietà della società indiana Adani.
L’Australia rimane uno dei più grandi produttori di CO2 pro capite, con emissioni superiori a tutte le altre nazioni del G20. Tra il 2013 e il 2014 ha speso 5 miliardi di euro in sussidi per la produzione di combustibili fossili, secondo i dati di Climate transparency.
La corsa verso la definizione e l’adozione del trattato non sembra potersi arrestare. “La ragione fondamentale è che i potenziali sostenitori del trattato già possiedono il coraggio politico e l’impegno necessari per adottare un importante strumento giuridico, sufficientemente ambizioso per evitare cambiamenti catastrofici nel sistema climatico globale”, ha sottolineato Pican. Il trattato, una volta attuato in collaborazione con Pidf e la società civile, invia un segnale forte ai mercati, ai governi e alla società civile internazionale: la fine dei combustibili fossili è vicina e gli stati isola agiscono non come vittime, ma come agenti di cambiamento.
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