Quanto costa, per i paesi africani, adattare il proprio territorio all’impatto del clima impazzito? A dare una risposta è un nuovo report pubblicato da Power shift Africa.
Sei stati africani (Etiopia, Liberia, Sierra Leone, Togo, Sudafrica e Sud Sudan) vogliono investire mediamente il 4 per cento del pil nell’adattamento ai cambiamenti climatici.
Questo amplifica le disuguaglianze, tanto più perché i paesi a basso reddito hanno contribuito soltanto in minima parte alla crisi climatica.
A poche ore dalla pubblicazione dell’attesissima seconda parte del sesto rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc), dedicata a impatti, adattamento e vulnerabilità, arriva un altro studio che prova a rispondere a una domanda: quanto costa, per i paesi africani, adattare il proprio territorio all’impatto del clima impazzito? Le cifre variano di stato in stato, ma in media ciascuno di essi dovrà investire più del 4 per cento del pil. In assenza di un sostegno da parte dei paesi industrializzati, saranno costretti a scegliere se salvarsi dagli eventi meteo estremi o costruire scuole e ospedali.
Quanto dovranno investire i paesi africani per i piani di adattamento
Ci sono due modi per affrontare i cambiamenti climatici: tagliare le emissioni di gas serra responsabili del riscaldamento globale (mitigazione) oppure intervenire sul territorio per renderlo meno vulnerabile a uragani, ondate di calore e siccità, incendi e altri eventi estremi (adattamento). Su questa seconda strada si focalizza il report scritto da Power shift Africa analizzando le strategie (chiamate nap, da national adaptation plan) di sei paesi africani: Etiopia, Liberia, Sierra Leone, Togo, Sudafrica e Sud Sudan.
La loro situazione è molto eterogenea. Da un lato c’è uno stato come l’Etiopia, con 117 milioni di abitanti e un’economia che (prima della Covid-19) cresceva al ritmo del 6 per cento annuo, pur con un tasso di povertà sempre consistente. Il suo piano di adattamento prevede investimenti pari a 6 miliardi di dollari all’anno, circa il 5,6 per cento del pil, arrivando a un totale di 90 miliardi entro il 2030.
All’estremo opposto c’è il Sud Sudan, uno degli stati più giovani del mondo (ha ottenuto l’indipendenza nel 2011) e anche uno dei più poveri (l’82 per cento della popolazione si sostenta con meno di 1,90 dollari al giorno). Il governo ha pianificato di spendere 376,3 milioni di dollari all’anno per l’adattamento fino al 2030, cioè circa il 3,1 per cento del pil attuale. Questo però a patto che i finanziatori internazionali siano disposti a coprire più del 90 per cento di tale somma.
Anche la crisi climatica è una questione di disuguaglianze
“Questo rapporto mostra la profonda ingiustizia dell’emergenza climatica. Alcuni dei paesi più poveri del mondo devono utilizzare risorse scarse per adattarsi a una crisi che non hanno provocato”, afferma Mohamed Adow, direttore di Power shift Africa. Gli studi per esempio dicono che la Sierra Leone è al terzo posto nella graduatoria dei paesi più vulnerabili all’impatto del clima, soprattutto a causa dell’aumento delle temperature, dei forti venti e delle tempeste sempre più frequenti. Per questo sarà costretto a spendere ogni anno 90 milioni di dollari in misure di adattamento, il 2,3 per cento del pil. Eppure, un cittadino della Sierra Leone emette in media 0,2 tonnellate di CO2 ogni anno. Uno statunitense, stando ai dati del 2018, ne emette circa 16 tonnellate. Cioè 80 volte tanto.
"The climate crisis is only a symptom of a much larger crisis. The sustainability crisis, the social crisis, a crisis of inequality that dates back to colonialism and beyond."
Nel 2009 i paesi industrializzati avevano promesso di stanziare 100 miliardi di dollari all’anno per aiutare quelli più poveri, ma finora questa promessa non è stata rispettata (sembra che l’obiettivo sia destinato a essere raggiunto non prima del 2023). Alla Cop26 di Glasgow si è discusso anche di un meccanismo di risarcimento delle perdite e dei danni subiti dai paesi più poveri (loss and damage), ma nell’accordo finale non ce n’è traccia. E, stando ad alcune indiscrezioni, sembra che la delegazione degli Stati Uniti stia facendo il possibile per escluderlo anche dal Summary for policymakers (cioè le raccomandazioni sintetiche) del nuovo rapporto dell’Ipcc.
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