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Artigianali, etiche e raffinate: le borse monocromo di Palorosa reinterpretano la tradizione del Guatemala
Le borse intrecciate a mano di Palorosa sono l’espressione della cultura indigena guatemalteca, ma anche oggetti di design dalla filiera etica.
Può un oggetto semplice come una borsa per la spesa diventare il prodotto di punta di un brand indipendente e, allo stesso tempo, rappresentare un fattore di crescita per una comunità guatemalteca? È quello che è successo a Palorosa, brand fondato dieci anni fa da Cecilia Pirani, che produce artigianalmente borse di plastica intrecciata, caratteristiche di quella parte di Centro America, proposte in versione monocroma e in una palette di colori minimale e raffinata.
Palorosa, tra design, radici lontane e artigianalità
La fondatrice Cecilia Pirani ha radici guatemalteche da parte di madre, ma è nata e cresciuta a Milano dove ha iniziato a lavorare come architetta di paesaggi fino a quando, nel 2012, ha lasciato il lavoro presso un grosso studio di architettura per decidere di trasferirsi a Città del Guatemala. “Stavo attraversando un momento di riflessione di vita generale e ho deciso di trascorrere del tempo in un luogo al quale sentivo di appartenere, ma dove fondamentalmente non avevo mai vissuto. Sono andata lì anche con l’idea di fare molta ricerca su quello che stava succedendo a livello di artigianato e di design: se prima, come architetta, progettavo lo sviluppo urbano dei parchi, ho da sempre avuto la passione per gli oggetti e per la ricerca a livello di materiali. Frequentando molto i mercati, sia in Guatemala che anche in qualche viaggio in Messico, mi sono subito innamorata delle sporte colorate usate dalle donne per andare a fare la spesa e per portarsi dietro tutto quello di cui avevano bisogno: il 70 per cento del paese è rappresentato da comunità indigene la cui eleganza ed estetica rurale e colorata mi ha sempre affascinata. In più ho sempre avuto la passione per le borse e, dopo i primi sette, otto mesi, ho trovato un’artigiana e le ho fatto un primo ordine, è iniziato tutto così”.
Oggi che il brand è cresciuto, la produzione è rimasta artigianale come quel primo ordine?
Assolutamente: quando ho iniziato a strutturarmi ho iniziato a lavorare con più donne, più famiglie addirittura. Parlo di donne perché la gran parte lo sono, ma spesso vengono impiegati anche i mariti: per loro l’artigianato tessile è sempre stato un modo di integrare l’economia familiare, tanti hanno i telai a casa e producono quello che serve, oppure lo vendono in piccole quantità. Per quanto riguarda Palorosa i nostri artigiani si possono gestire il lavoro, che fanno completamente a casa con strumenti e materiali forniti da noi, proprio perché per molti non è l’attività principale, ma si affianca ad altre, come agricoltura e allevamento. Ovviamente garantiamo il living wage per le persone assunte, e paghe eque per le artigiane che lavorano su commissione. Poco prima del Covid ci siamo rivolti a una società che aiuta le startup nell’analisi economico finanziaria e aiuta a rispettare living wage e salari adeguati. Per noi però il punto non è mai stato quello di seguire una regola o un numero stabilito dal governo: per noi è un tema di rapporti umani che creiamo con queste persone e di consentire loro di avere un giusto equilibrio tra lavoro e vita privata. Ogni artigiano ha il proprio codice, con il quale possiamo tenere traccia degli ordini ed elaborare i pagamenti, ed è totalmente autonomo sia nel gestirsi il lavoro che nella quantità di commesse da prendere. Ovviamente l’artigianalità si porta dietro delle complicanze che non si possono prevedere, come il fatto che qualcuno non stia bene e quindi si ritardi la consegna, ma è il bello di fare le cose ancora così.
Credi di essere riuscita a creare valore sia per il tuo brand sia per le artigiane e gli artigiani che impieghi?
Credo che la risposta si trovi nei rapporti che abbiamo con queste persone. La prima artigiana con cui ho lavorato è ancora con noi e l’ultima volta che sono stata lì abbiamo fatto una riunione e un pranzo tutti insieme e ho proprio pensato di aver creato qualcosa di bello per queste persone, e non soltanto in termini economici, ma anche di aggregazione. Sicuramente il mio approccio è molto intuitivo e spontaneo, non ho studiato management e non sono un’esperta di sostenibilità o di impatto sociale, ma il riscontro umano c’è e porta dei risultati concreti.
Quanto contano in questo processo le tue radici?
Il mio background deriva dall’architettura e dal design: quello che ho fatto è stato unire la ricerca estetica alle mie radici e, per me, è molto diverso dall’essere un designer che sceglie di dislocare la sua produzione qui, magari anche affidandosi a cooperative e facendo tutto in maniera etica. Il fatto di essere guatemalteca per metà ha mosso in me fin da subito la voglia e l’esigenza di fare qualcosa in Guatemala e soprattutto di avere un impatto reale per la comunità. È nato tutto in maniera spontanea: non ho mai pensato di costruire a tavolino un progetto sociale, però mi è venuto naturale creare delle relazioni lavorative forti con le artigiane. Credo anche di essere riuscita a far vedere in questa parte di mondo una diversa faccia del Guatemala.
Estetica minimal e ricerca sui materiali
Cosa ti ha colpito di più dell’estetica guatemalteca?
Io queste borse non le ho inventate, ho semplicemente reinterpretato qualcosa che esisteva già, ma è un modo per far conoscere un aspetto magari meno noto di una cultura. Questo tipo di borse, le shopper molto ampie e intrecciate, sono molto diffuse nelle zone rurali perché sono resistenti e hanno mille utilizzi. Io poi ho scelto il mio marchio di fabbrica, che è lo sviluppo della palette del prodotto che, a differenza di quello originale, è monocromo e declinato in tinte che scelgo appositamente e che non sono quelle che userebbero in Guatemala, dove i colori sono sempre molto vividi. Ora anche le artigiane le iniziano ad apprezzare, ma inizialmente non le capivano.
Anche i fornitori della materia prima sono locali?
Questo specifico filo di plastica viene fatto solo per queste borse e solo tra Guatemala e Messico, quindi la produzione è abbastanza limitata ed è una mescola di plastica vergine e plastica riciclata post consumo. Il tema del riciclo, per una produzione piccola come la nostra, è di difficile gestione: abbiamo trovato un altro fornitore con cui portare avanti un discorso di ricerca e sviluppo, ma al momento non esiste un produttore che realizzi il filo che serve a noi in plastica 100 per cento riciclata. La nostra produzione al momento è troppo piccola perché qualcuno decida di farlo solo per noi. In più una componente per noi imprescindibile è la durabilità: utilizzare anche la plastica vergine unitamente a quella riciclata ci consente di realizzare un prodotto che è indistruttibile e che mantiene intatte nel tempo anche le caratteristiche di colore. La produzione industriale ha logiche completamente diverse rispetto a quelle dell’artigianalità. Chiaramente la plastica è impopolare, ma il nostro desiderio è quello di controllare più possibile il processo e di riutilizzare anche il nostro stesso materiale perché, e questo è un nostro plus, le nostre borse sono fatte di un unico materiale e quindi possono essere riciclate facilmente. Lavorando made to order non abbiamo né eccedenze di magazzino né molti scarti, ma chiaramente un po’ ci sono e i nostri sono destinati a una società che produce suole in plastica riciclata: avere un prodotto monomateriale ci permette questo.
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