Dal Brasile all’Ungheria, così la pandemia ha colpito l’accesso alle informazioni
I giornalisti della Bbc si mettono il bavaglio
Secondo l’analisi di una ong, durante la pandemia molti governi hanno adottato misure che limitano l’accesso alle informazioni o il diritto di critica.
I giornalisti della Bbc si mettono il bavaglio
La pandemia legata alla diffusione del coronavirus ha avuto un impatto negativo sulla libertà di informazione nel mondo. È l’allarme lanciato dall’ultimo rapporto di Article 19, organizzazione che a livello globale si occupa della difesa del libertà di opinione e di espressione. Il documento parte da una constatazione importante, fondamentale, dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): una popolazione ben informata sul Covid-19 contrasta meglio la diffusione del virus. Molti governi hanno però adottato misure che limitano di fatto l’accesso alle informazioni relative alla pandemia. Alcuni governi hanno infatti approfittato del contesto per limitare l’applicazione dei diritti umani o per farsi attribuire “pieni poteri”, non solo nella gestione dell’emergenza ma anche per fini politici. E una situazione così tesa dal punto di vista sanitario ha portato in superficie conflitti sociali mai sopiti. Come nel caso della questione razziale negli Stati Uniti.
Il valore di comunicare dati e informazioni
Durante la pandemia, in gioco non ci sono solo la salute e la sicurezza delle persone, ma anche il loro diritto all’informazione: “La sua riduzione o distorsione danneggia la stessa battaglia contro il virus”, indica il rapporto di Article 19, che sottolinea anche come le informazioni rese pubbliche dai governi debbano seguire standard precisi, tra i quali quelli legati alla regolarità e all’accessibilità. Per molti stati garantire alla popolazione e ai media l’accesso a informazioni e dati non è visto come qualcosa di prioritario. Per altri, la segretezza viene imposta per limitare le critiche nei confronti dei processi decisionali o per celare il tentativo di instaurare un regime dittatoriale. Questo viola gli obblighi previsti dal diritto internazionale in materia di accesso alle informazioni che riguardano la salute pubblica. “Questo è il momento in cui i governi devono essere trasparenti e responsabili nei confronti delle persone che stanno cercando di proteggere”. Ad affermarlo, nell’aprile di quest’anno, è António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite.
Perché il diritto alle informazioni è importante per combattere il Covid-19
Da un lato, tutti i governi stanno prendendo decisioni difficili su come rispondere alla pandemia, “essere trasparenti aiuta a garantire la fiducia nelle proprie azioni”, viene sottolineato nel report. Dall’altro lato, però, garantire le informazioni oggi è essenziale. In questo periodo non è sufficiente che gli stati mantengano i propri standard di trasparenza. Piuttosto sono chiamati, secondo quanto previsto dalle leggi internazionali, a rendere pubbliche tutte le informazioni sulla crisi sanitaria e le misure adottate per contrastare la pandemia.
Una richiesta ribadita anche dal Consiglio d’Europa che ad aprile si è espresso sul fatto che le comunicazioni ufficiali non potessero essere l’unico canale informativo sulla pandemia: giornalisti, professionisti medici, attivisti e cittadini devono essere in grado anche di criticare le autorità sul loro operato e di monitorare le loro risposte alla crisi.
"Europeans are searching for advice about how to deal with coronavirus and may rely upon untrustworthy sources of information."
Manca una trasparenza proattiva a tutti i livelli: l’importanza dei whistleblowers
“I governi, ma anche gli enti privati, non devono usare la pandemia per coprire casi di incompetenza o abusi che ledono i diritti umani”, ha dichiarato David Banisar, capo dell’associazione Transparency International. Dalla trasparenza alla tutela dei whistleblowers (gli informatori), fino alla prevenzione della corruzione dei governi: tutto ruota attorno al diritto di ogni cittadino ad accedere a dati e documenti delle pubbliche amministrazioni. E anche a quello che queste non dicono. I lavoratori dell’ambito sanitario sono e sono stati i più esposti alla pandemia non solo per la pericolosità del virus, ma perché – prosegue Article 19 – “rischiano le loro carriere e spesso persino le loro vite a causa della cattiva gestione e dei comportamenti criminali”.
Quando le decisioni vengono assunte in contesti di emergenza, spesso al di fuori dei meccanismi democratici, i whistleblower possono giocare un ruolo chiave di prevenzione o denuncia. “Durante questa pandemia abbiamo già assistito ad abusi. In diversi momenti, i diritti fondamentali della libertà di espressione e dell’accesso alle informazioni sono stati limitati. Il costo di queste azioni è grava fortemente sui membri più vulnerabili delle nostre comunità: anziani, comunità emarginate, immigrati e rifugiati, comunità Lgbtq, detenuti, moltitudini di lavoratori precari e in prima linea nella crisi”, scrive Transparency International. Il whistleblowing ha dimostrato di essere perciò un potente strumento per combattere e prevenire azioni che minano la trasparenza delle informazioni.
Brasile: coronavirus, fake news e manipolazione delle informazioni
Sono proprio le categorie più vulnerabili della società brasiliana, ad esempio, a pagare il comportamento di questi mesi del loro leader: Jair Bolsonaro. Il presidente della nazione latinoamericana ha fatto finta che il problema del Covid-19 non esistesse, poi lo ha sminuito. È andato avanti per la sua strada ignorando i pareri di scienziati ed esperti mondiali. Poi, a disastro in corso, ha evocato il complotto senza presentare prove e si è trincerato nel negazionismo. Il paese ha raggiunto il Regno Unito e corre veloce verso i 45mila morti, secondo i dati del ministero della Salute brasiliano, al secondo posto per vittime al mondo. Il leader ultraconservatore ha gestito la pandemia usando la stessa strategia che lo ha portato al potere: inquinando il dibattito pubblico, facendo un massiccio uso di fake news e ignorando qualsiasi dato reale. Il risultato di questo metodo di gestione del potere e della pandemia è adesso sotto gli occhi di tutti, per via delle laceranti immagini della spiaggia di Copacabana a Rio de Janeiro, trasformata in un cimitero.
Bolsonaro ha deciso di intraprendere una guerra dei numeri sull’impatto del Covid-19 in Brasile. Contro ogni indicazione delle Nazioni Unite e del report di Article 19, il presidente ha spostato dopo le 22 la divulgazione dei dati giornalieri per non farli diffondere dal telegiornale con più audience, il Jornal Nacional della Rede Globo. In aggiunta, il ministero della Salute ha deciso di non divulgare più il numero totale di contagi e di decessi, promettendo anche un’investigazione esaustiva sui dati finora trasmessi dai dipartimenti dei singoli stati.
La svolta autoritaria passa dalla censura delle informazioni. In Brasile e in Ungheria
Oltre ad essere il secondo epicentro più attivo della diffusione del Covid-19 dopo gli Stati Uniti, il Brasile rischia di trovarsi al centro della classica “tempesta perfetta” che spingerebbe ad accettare come il male minore un intervento dei militari. Il rischio di un’azione autoritaria è respinto dallo stesso esercito che ad oggi, però, occupano 10 delle 22 poltrone dell’esecutivo verdeoro. Molti osservatori, tra cui il New York Times, sono convinti che nel paese ci sia stanchezza e molta disillusione. Anche tra chi ha votato per “l’uomo venuto dal nulla” per fare di nuovo grande il Brasile: Bolsonaro. Nella profonda spaccatura sociale che si è venuta a creare agiscono poi gruppi di ispirazione nazista. Da 40 siti apparsi nel 2018 la rete adesso è affollata da 240 portali su cui campeggiano simboli e parole d’ordine hitleriane. E alcune bandiere nazionalsocialiste sono state sventolate alle ultime manifestazioni di San Paolo contro il lockdown.
Anche in Ungheria la fase 2 della pandemia odora di negazionismo: in questo caso dei diritti umani. Non solo dell’articolo 19. I politici dell’opposizione del governo del detentore dei “pieni poteri” Viktor Orbán ed esponenti della società civile sono stati i destinatari di arresti, perquisizioni e sequestri di computer e smartphone. La colpa? Aver condiviso post critici nei confronti del governo di Budapest e della sua gestione del coronavirus. I provvedimenti eseguiti dalla polizia sono legalmente legittimati dalle misure “anti-allarmismo” (etichetta che spaventa) approvate dalla maggioranza che sostiene Orbàn. Lo stato d’emergenza giustificato dalla pandemia consente alle autorità magiare di infliggere pene carcerarie da uno a cinque anni per la diffusione di “notizie allarmiste”. Una pugnalata all’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani, che recita: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione”.
L’informazione negli USA tra pandemia e razzismo
La situazione negli Stati Uniti è tesa dal punto di vista sanitario: gli States sono il primo paese al mondo per contagi e per morti da Covid-19. Questo ha portato in superficie conflitti sociali mai sopiti. Come nel caso della questione razziale. Mentre i contagi negli Stati Uniti hanno abbondantemente superato i due milioni e siamo nell’ordine delle centinaia di migliaia di vittime, infiammano le proteste in almeno 30 città a seguito dell’uccisione da parte della polizia di George Floyd, afroamericano morto il 25 maggio durante l’arresto a Minneapolis. Nonostante la pandemia questo episodio ha fatto tornare alla ribalta il tema mai sopito del razzismo, sfociato in violenti scontri tra manifestanti e polizia.
Finora l’associazione Reporter senza frontiere (Rsf) segnala che sono stati almeno 68 gli incidenti documentati ai danni dei giornalisti sia da parte della polizia, che dei manifestanti. L’episodio più eclatante è stato l’arresto in diretta tv di una troupe della Cnn che copriva le proteste a Minneapolis il 29 maggio. “La demonizzazione dei media, portata avanti dal presidente Trump per anni, è ormai un dato di fatto. Ora sono sia la polizia che i manifestanti che prendono di mira giornalisti identificati e perseguiti con violenza e con arrestati”, ha affermato Christophe Deloire, segretario generale di Rsf. Non solo: sempre a Minneapolis, il corrispondente australiano di 9News, Tim Arvier, è finito in manette mentre svolgeva il proprio lavoro. E ancora: a Las Vegas, la fotogiornalista Bridget Bennett è stata arrestata per “mancata dispersione”, recita il verbale della polizia, dal luogo di un corteo di manifestati dov’era intervenuta la polizia. La giornalista è stata anche trattenuta per un’intera notte mentre lavorava ad un incarico per l’agenzia Afp.
Nonostante gli Stati Uniti siano solo al 45esimo posto su 180 paesi nell’indice sulla libertà di stampa di Rsf (ilFreedom Press World 2020), “occorre che tutte le autorità garantiscano la piena protezione dei giornalisti per onorare i principi fondanti della democrazia nel rispetto della libertà di stampa”, ha concluso Deloire. Che si tratti di raccontare la pandemia o le proteste anti-razzismo.
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