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Paola Antonelli, curatrice della XXII Triennale di Milano, sul rendere il design accessibile a tutti
Paola Antonelli del Moma di New York è una delle persone più influenti nel campo del design. Ci racconta come la mostra Broken nature alla Triennale di Milano, di cui è curatrice, è un’evoluzione naturale del suo percorso.
Paola Antonelli è la curatrice di Broken nature, la grande mostra a cui è dedicata la XXII Triennale di Milano. Curatrice del dipartimento di Architettura e Design presso il Museum of modern art (Moma) di New York, è architetto e designer di formazione, ed è tra le cento persone più influenti nel mondo dell’arte secondo le riviste Art Review e Surface Magazine. L’abbiamo incontrata il 27 febbraio all’inaugurazione della mostra, che esplora la relazione tra le persone e gli elementi del Pianeta, visitabile fino al primo settembre.
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Si è sempre occupata in maniera alternativa del design affrontando al Moma tematiche trasversali e fuori dell’ordinario. Quali sono i progetti realizzati prima di Broken nature che rappresentano tappe fondamentali del suo percorso?
Ne parlavo con mio marito ieri che ha visto negli anni tutte le mie mostre al Moma e diceva: “Vedo in Broken Nature un po’ di Mutant materials in contemporary design (materiali mutanti nel design contemporaneo, ndr)”, che è stata la mia prima mostra, nel 1995, e che trattava i materiali e come la tecnologia ha permesso un loro utilizzo diverso. In effetti è vero, tutte le mostre che ho fatto fanno parte della stessa passione. Andando da quella mia prima mostra a Design and elastic mind (design e la mente elastica) nel 2008 e attraverso quasi tutte le tappe intermedie, si tratta sempre di dimostrare che il design è un metodo che può essere applicato a tante piattaforme diverse. Personalmente penso che l’architettura e anche la pianificazione urbana facciano parte del design che per me è una specie di grande ombrello che abbraccia tutte queste discipline progettuali. Non trovo che sia una visione così speciale: è semplicemente una visione che non è soltanto ferma alla forma e alla funzione, ai soliti vecchi ritornelli sul design che sono stati superati da molto tempo.
Quindi il progetto Broken nature rappresenta non un punto di arrivo ma un’evoluzione naturale di questo percorso?
Assolutamente sì.
Quali sono i progetti in essere o che prevede di realizzare dopo Broken nature?
Ho tanti progetti in corso, sto pensando a una lunga lista di mostre grosse da proporre. Non so ancora cosa succederà e dovrò scegliere, adattare. Ora ho bisogno di un po’ di tempo per digerire. Ci vuole sempre un momento di riflessione. In questo momento, insieme alla mia meravigliosa squadra curatoriale formata da Ala Tannir, Laura Maeran ed Erica Petrillo abbiamo messo tutte le energie in questa mostra. È un po’ come dopo un parto, mi verrà un po’ di depressione, andrò in vacanza, mi riprenderò, dormirò tanto, dopodiché ritornerò alla mia vita ‘normale’, ma che normale non è, in cui sarò stata arricchita da questa esperienza e da quella nuova base capirò cosa fare.
L’arte e la scienza e la loro relazione sono temi molto attuali. In Broken nature il rapporto tra arte e scienza è una chiave di lettura centrale?
Tra design e scienza direi. C’è un po’ d’arte in questa mostra, ma la mia forza è il design. Di arte se ne occupano già in tanti. È il design che ha più bisogno di ambasciatori. Ci sono dei cliché nel rapporto tra arte e scienza o tra design e scienza che vanno presi con un grano di sale. Ed è sempre così: quando c’è un nuovo binomio, una nuova formula interessante c’è all’inizio tantissimo fervore dopodiché, dopo una prima ubriacatura, torna la sobrietà che è quella che permette di sfruttare questo progresso. Quindi penso che il fatto che oggi ci sia molta più consapevolezza del rapporto tra arte e scienza è fondamentale. La recente mostra On air di Tomas Saraceno a Parigi al Palais de Tokyo ha avuto un gran successo. Ci sarà una mostra monografica di Olafur Eliasson, In real life, alla Tate modern gallery di Londra la prossima estate. C’è tantissima attenzione a questi artisti che abbracciano la scienza e ne sono entusiasti. Per quanto riguarda i designer, sono sempre stati in relazione con ingegneri e scienziati perché il loro lavoro è quello di tradurre grandi innovazioni nella scienza e nella tecnologia in oggetti di tutti i giorni che la gente può usare. Ma il design è meno presente dell’arte nelle discussioni generali e in un certo senso è svantaggiato.
Hai affermato che l’obiettivo del curatore di una mostra di design è quello di arrivare al grande pubblico, con un forte obiettivo divulgativo: Broken nature è riuscita in questo intento? Pensa che l’allestimento, il modo in cui sono mostrati progetti e oggetti, sia efficace nei confronti del grande pubblico?
Cerco sempre di allestire mostre che si possono vedere in cinque minuti o in cinque ore o in cinque giorni. Quindi penso che una persona che passa attraverso Broken nature anche senza fermarsi possa cogliere un’impressione generale, con un inizio e una fine, vedendo anche solo pochi progetti. Ovviamente se la si visita con un po’ più di tempo si possono cogliere più informazioni, ma non c’è bisogno di vederla tutta, di soffermarsi su tutte le opere e leggere tutte le didascalie per avere un’idea di quello che c’è.
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