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Paolo Borsellino, chi era il giudice ucciso dalla mafia
Paolo Borsellino fu ucciso dalla mafia in via D’Amelio, a Palermo, il 19 luglio del 1992. Con lui persero la vita cinque agenti della scorta.
Il 19 luglio 1992 il magistrato antimafia Paolo Borsellino sapeva di andare incontro alla morte. Forse non quel giorno, forse non in quella via D’Amelio nella quale si recava quasi ogni domenica per andare a trovare la madre. Ma sarebbe accaduto di lì a poco. Assieme a Giovanni Falcone, amico e collega nel pool antimafia voluto dal giudice Antonino Caponnetto, era arrivato troppo vicino alla “cupola”, il vertice della catena di comando della mafia. E si era spinto fino ad indagare sui legami tessuti dai boss con il mondo della politica, quello degli affari. Con la stessa magistratura.
“Devo fare presto, non ho più tempo”
“Devo sbrigarmi, non ho più tempo”, ripeteva dal 23 maggio di quell’anno. Ovvero dal giorno in cui, sull’autostrada A29 che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, Falcone venne fatto saltare in aria assieme alla moglie Francesca Morvillo, agli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonino Montinaro, agli altri membri della scorta Paolo Capuzza, Angelo Corbo e Gaspare Cervello, e all’autista giudiziario Giuseppe Costanza.
Nel suo ultimo giorno di vita Paolo Borsellino decide di pranzare a Villagrazia di Carini – una frazione di Palermo – con la moglie, Agnese, e i figli Manfredi e Lucia. Quindi li saluta, raduna la scorta e chiede di passare dalla madre. Alle 16:58 il corteo arriva in via D’Amelio, una strada senza uscita. Il giudice scende dall’auto e si muove verso il citofono. Farà appena in tempo a suonare: una Fiat 126 imbottita di tritolo esplode uccidendolo sul colpo, assieme ai cinque agenti della scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Si salva per miracolo solo un poliziotto, Antonino Vullo.
Pochi giorni prima di morire, parlando ad una conferenza organizzata all’università di Palermo, Borsellino ricordava Falcone spiegando: “La sua morte l’avevo in qualche modo messa in conto”. Pesò ogni parola, rivoltando continuamente tra le mani un accendino. Lo sguardo spesso rivolto verso il basso, le continue pause. L’attacco durissimo alle istituzioni, a quella magistratura “che forse ha più colpe di tutti”, allo stato che lasciò il suo collega “morire professionalmente, senza che nessuno se ne accorgesse. Denunciai quanto stava accadendo e per questo ho rischiato conseguenze gravissime” ma che erano necessarie, “perché alla morte di Falcone tutti avrebbero dovuto già sapere. Il pool doveva morire di fronte al paese intero, non nel silenzio”.
Il mistero dell’agenda rossa di Paolo Borsellino
Alla moglie disse: “Quando mi ammazzeranno, sarà stata la mafia ad uccidermi. Ma non sarà stata la mafia a volere la mia morte”, ha raccontato il fratello Salvatore in un’intervista. Borsellino sapeva troppo: doveva sparire lui, ma dovevano sparire anche le sue carte. Così, una delle più drammatiche pagine della storia della repubblica italiana si condisce di un episodio misterioso ed inquietante. Borsellino non si separava mai da un’agenda rossa dei carabinieri che gli era stata regalata. Dentro custodiva appunti, indizi, contatti, prove. Era il suo testamento professionale.
Quella mattina, come sempre, l’aveva fatta scivolare nella ventiquattrore. Eppure, dal luogo del delitto sparì. Nessuno ne seppe più nulla. “Sappiamo, grazie alle perizie della polizia scientifica su un filmato video, che tra le 17.20 e le 17.30, l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli ebbe la borsa in mano e la portò in direzione dell’uscita di via d’Amelio – ha ricostruito la trasmissione Rai Files24 -. Sappiamo, dalle dichiarazioni rilasciate ai giornalisti dal funzionario di polizia Arnaldo La Barbera pochi giorni dopo la strage, che la borsa fece tappa alla questura di Palermo. Sappiamo che la famiglia del giudice controllò la borsa dopo la strage, denunciando la mancanza dell’agenda. Sappiamo che il primo verbale di apertura della borsa fu redatto dalla procura di Caltanissetta il 5 novembre 1992, ben tre mesi e mezzo dopo la strage. Sappiamo, sempre grazie ai reperti fotografici e video, che la borsa nelle mani di Arcangioli era integra, senza segni di bruciature, mentre la borsa repertata dalla procura era parzialmente bruciata su un lato”.
La famiglia rifiutò i funerali di stato
“Certamente – ha accusato il fratello – in via D’Amelio c’erano persone che aspettavano. E non potevano essere che persone dei servizi segreti. Non era alla mafia che interessava sottrarre l’agenda rossa”. Arcangioli fu indagato per il furto, quindi prosciolto dall’accusa “per non aver commesso il fatto”. Quale sia stato il ruolo dei servizi segreti italiani (deviati?) sulla morte di Borsellino, e probabilmente anche di Falcone, è dunque ancora oggi, a tre decenni di distanza, un mistero. Probabilmente le verità che si rischiano di rivelare, gli intrecci torbidi tra stato, mafia, parte del sistema bancario, apparati militari, istituzioni locali e – forse – anche servizi segreti stranieri rappresentano qualcosa che ancora è troppo per poter essere ammesso.
Probabilmente le stesse “menti raffinatissime”, per usare le parole di Falcone, che progettarono il fallito attentato all’Addaura nel 1989 sono coinvolte nelle stragi del 1992. E forse anche in quelle che hanno scosso il paese nel 1993, con le bombe al patrimonio artistico. Probabilmente tutto era collegato anche alla situazione politica nazionale, con la caduta del muro, tangentopoli, la nascita della cosiddetta Seconda repubblica e la prospettiva di una sinistra per la prima volta al governo. Fatto che risultava indigesto a gran parte della mafia, dei servizi segreti italiani e non, di ambienti delle forze dell’ordine.
Il 24 luglio si celebrarono i funerali di Borsellino. In forma privata, perché la famiglia rifiutò le esequie di stato: la moglie Agnese accusava il governo di non aver protetto il marito. Fu scelta una chiesa di periferia, quella di Santa Maria Luisa di Marillac. Ciò nonostante, diecimila persone si accalcarono sul selciato per dare l’ultimo saluto al giudice. In modo civile e ordinato, benché pochi giorni prima, ai funerali dei membri della scorta la folla inferocita ruppe i cordoni dei circa quattromila agenti posti a difesa dei numerosissimi uomini politici presenti. Scandendo: “Fuori la mafia dallo stato. Fuori lo stato dalla mafia”.
La denuncia di Paolo Borsellino negli audio desecretati
Il 16 luglio 2019, quasi 27 anni dopo l’assassinio del giudice, qualcosa ha cominciato a venire alla luce. Pochi documenti, poche informazioni. Che non chiariscono definitivamente ciò che accadde in quel 1992: chi coprì, chi sostenne, chi spalleggiò gli assassini. Quale ruolo ebbero alcuni apparati deviati. Se davvero Borsellino sia stato vittima di un complotto. Per tutto ciò occorrerà aspettare probabilmente molti anni ancora: sappiamo però che gran parte delle ricostruzioni effettuate finora non sono probabilmente altro che frutto di un immenso depistaggio. Forse il più grave dell’intera storia giudiziaria del nostro paese.
Ciò che emerge ora è soprattutto la consapevolezza del magistrato: la sua voce, registrata nel corso di un’audizione presso la Commissione Antimafia, nel 1984, denunciava le difficoltà incontrate nel suo lavoro. La mancanza di personale: i dattilografi, i segretari, gli assistenti. La mancanza di sostegno “per gestire processi talmente grandi da comportare centinaia di faldoni colmi di documenti, capaci di riempire stanze intere”. Era l’epoca in cui si preparava il maxi-processo che si aprirà il 10 febbraio 1986 presso l’aula-bunker di Palermo. Il capolavoro giudiziario di Borsellino, Falcone e del pool antimafia. Il più grande procedimento contro la criminalità organizzata mafiosa mai tenuto al mondo: 460 imputati, 200 avvocati difensori, quasi sei anni di lavoro. Conclusi con 19 ergastoli e pene per un totale di 2.665 anni di reclusione. Un colpo devastante per la mafia, benché molti boss, all’epoca, fossero ancora latitanti.
Ebbene, negli anni precedenti Borsellino già cominciava a sentirsi solo. “Voglio sottolineare – spiegava il giudice, rivolgendosi alle istituzioni – la gravità dei problemi di natura pratica che ogni giorno dobbiamo affrontare. Con la gestione dei processi di mole incredibile, è diventato indispensabile l’uso di attrezzature più moderne, come i computer: il pc è finalmente arrivato ma non sarà operativo se non tra qualche tempo, ci sono problemi gravi di installazione. Quanto al personale, non si tratta solo di dattilografi e segretari di cui avremmo bisogno di aver garantita la presenza per tutta la giornata, non solo per la mattinata. Mi riferisco anche agli autisti giudiziari: la mattina la gran parte di noi viene accompagnata in ufficio dalle scorte ma di pomeriggio c’è una sola macchina blindata. E io sistematicamente vado in ufficio con la mia auto per poi tornare a casa verso le 21-22. Così riacquisto la mia libertà. Ma non vedo che senso abbia perdere la libertà la mattina per essere libero di venire ucciso la sera”.
Il fratello del giudice: “Si tolgano i sigilli a tutti i vergognosi segreti di stato”
Il fratello di Borsellino, Salvatore, ha commentato la pubblicazione dell’audio con parole dure e amare: “A ventisette anni di distanza – scrive in una lettera – io non posso accettare che i pezzi di mio fratello, le parole che ha lasciato, i segreti che ancora pesano su quella strage vengano restituiti a me, ai suoi figli, all’Italia intera, uno ad uno. È necessario che ci venga restituito tutto, che vengano tolti i sigilli a tutti i vergognosi segreti di stato ancora esistenti. E non solo sulla strage di Via D’Amelio, ma su tutte le stragi di stato che hanno macchiato di sangue il nostro paese”.
“È necessario – ha concluso il fratello del giudice – che quella agenda rossa che è stata sottratta da mani di funzionari di uno stato deviato, e che giace negli archivi grondanti sangue di qualche inaccessibile palazzo, e non certo nel covo di criminali mafiosi, venga restituita alla memoria collettiva. Alla verità. Alla giustizia”.
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