Analizzare la resilienza delle aziende, guardando sia i dati di bilancio sia i criteri ambientali e sociali: quest’approccio si chiama Esgonomia. Ne abbiamo parlato con Paolo Proli, responsabile della divisione retail in Italia di Amundi.
Dimentichiamoci l’economia del secolo scorso che prestava attenzione solo ed esclusivamente alle performance finanziarie delle imprese. È iniziata l’era dell’Esgonomia, in cui la prosperità si raggiunge anche puntando sui fattori ambientali, sociali e di governance. Ne è convinto Paolo Proli, responsabile della divisione retail in Italia di Amundi, il primo asset manager europeo fra i primi 10 operatori a livello mondiale.
Cosa significa Esgonomia? Esgonomia è un neologismo che vuole far capire quanto sia stretta la relazione tra i criteri ambientali, sociali e di governance (Esg, appunto) e le performance economiche delle imprese. Queste ultime ormai non sono più solo finanziarie. Anche in Italia il decreto legislativo 254/2016 obbliga le aziende quotate con più di 500 dipendenti e 40 milioni di fatturato a dichiarare ogni anno il bilancio non finanziario. Questo documento ci fa capire quanto le aziende si attivino per la tutela dell’ambiente, il loro stesso human capital, i diritti umani e le buone regole di condotta. Questo per noi è Esgonomia e, nell’ambito della finanza, significa analizzare la resilienza a lungo termine delle aziende.
Come fa Amundi a valutare gli aspetti ambientali, sociali e di governance e scegliere le aziende più meritevoli? Amundi ha costruito un processo proprietario di analisi Esg con una politica best in class. Una volta rilevati i dati non finanziari delle aziende monitorate dai numerosi provider con i quali collaboriamo, analizziamo 37 fattori ricavandone un punteggio finale, da A (il valore massimo) a G (il minimo). Questo ci permette di escludere le aziende che hanno il rating peggiore e, viceversa, investire sia in quelle che già hanno un notevole impatto positivo, sia in quelle destinate a migliorare nel tempo. Un’analisi che viene implementata dai portfolio manager e riponderata in base alla tipicità dell’azienda: l’automotive per esempio si focalizzerà soprattutto sulle emissioni, il comparto farmaceutico sull’impatto sociale, il settore bancario sulla governance.
Per un’azienda, la transizione verso la sostenibilità comporta costi e benefici. Può fare qualche esempio? Stiamo vivendo una fase di grandissima trasformazione. Siamo nel secolo della transizione energetica e, pertanto, è fondamentale che le aziende decarbonizzino la propria attività. Questo può implicare dei costi nell’immediato, ma sono costi che diventano opportunità nel lungo termine. Misurare e ridurre le emissioni dirette (Scope 1) e indirette (Scope 2 e 3) permette infatti di migliorare l’efficienza energetica, il che corrisponde a un risparmio. Se poi il prezzo della CO2 passerà dai 50-60 euro attuali fino a 100 euro, come si sta ipotizzando, la mancata transizione sarà un costo evidente.
Finora ho fatto l’esempio delle emissioni di CO2, ma questo principio si può declinare su tantissime altre iniziative relative alla sostenibilità. Anche le politiche per la coesione sociale per esempio sono un costo nell’ottica di produzione ma, dall’altro lato, migliorano la percezione da parte degli investitori e permettono di trovare più finanziamenti privati e pubblici.
Compresi i finanziamenti del Next Generation Eu? Le politiche d’impatto verranno implementate nell’ambito dei progetti relativi al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Il Next Generation Eu porta in Italia 191,5 miliardi di euro, di cui 59,47 per la transizione ecologica, circa 40 per la digitalizzazione e la competitività del sistema paese e circa un terzo per l’inclusione, la sanità e la coesione sociale. L’Esgonomia, che sposa le logiche che ispirano il Pnrr, consente di agire in direzione del raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu (Sdgs). Possiamo quindi ripianificare l’asset allocation di un portafoglio di investimenti per Sdgs, non solo per settore merceologico. Questa è una grandissima novità nel mondo della finanza.
Amundi ha aderito alla coalizione “Investors for a just transition”, per ribadire che la transizione deve essere equa, non deve indirettamente scatenare problemi sociali. Pensiamo per esempio ai posti di lavoro che si perderanno quando bisognerà chiudere le miniere di carbone. Servono politiche governative di allocazione dei capitali che permettano alle aziende di erogare formazione a questi dipendenti, riqualificandoli e riallocandoli in industrie più verdi. Iberdrola, in Spagna, ha chiuso le miniere di carbone e ha aperto parchi eolici e solari, ri-assumendo le persone che avevano perso il lavoro. È il momento giusto per pianificare investimenti che permettano alle industrie, piccole e grandi, di partecipare alla transizione ecologica e sociale.
E quali sono costi e benefici per gli investitori? In virtù di questa trasformazione, le imprese genereranno in modo diverso i loro utili attesi futuri. Oggi l’analista è chiamato a capire il valore di lungo termine dell’azienda dal punto di vista finanziario e non finanziario, per ridurre i rischi di transizione e le controversie. È così che bisogna costruire i portafogli di investimento, lasciandosi alle spalle l’approccio della massimizzazione del rendimento (“più rischio, più guadagno”) e considerando anche l’impatto positivo sulla transizione ecologica e sociale.
Il cittadino può partecipare alla transizione investendo in fondi che puntino sulla sostenibilità. La nuova normativa europea (Sustainable finance disclosure regulation) ci aiuta, perché richiede alle società di gestione del risparmio di fornire informazioni chiare su rischi e impatti Esg. Amundi è in testa alla classifica degli asset manager che hanno il maggiore patrimonio in fondi classificati come articolo 8 e articolo 9. I primi integrano i parametri Esg nell’analisi finanziaria tradizionale, i secondi invece hanno un esplicito obiettivo sostenibile. Alcuni nostri fondi tematici articolo 9 contribuiscono all’accesso alla sanità, alla riduzione della povertà, alla diversity, al social housing; in una parola, agli Sdgs. Con questi fondi l’investitore può comporre un portafoglio coerente con la trasformazione che stiamo vivendo.
Questi impatti vengono rendicontati? Come accennavo in precedenza, la normativa obbliga le aziende quotate con più di 500 dipendenti e 40 milioni di fatturato a dichiarare ogni anno il bilancio non finanziario. Per quanto concerne le società di gestione non c’è ancora un obbligo, ma noi pubblichiamo i report di impatto per diversi fondi. Per esempio, per il fondo Climate action dichiariamo, per ogni milione di euro, quanto contribuiamo alla decarbonizzazione investendo in quelle aziende invece che in altre. Questo ci dimostra che la sostenibilità non è una moda, è un nuovo modo di vedere le cose. La tassonomia prevede che dal prossimo anno anche il cittadino debba rispondere a domande sulla sostenibilità quando compila il questionario Mifid in filiale. Sarà la chiusura del cerchio, con finanza, imprese e individui che lavorano insieme per lo sviluppo sostenibile.
Cosa dicono gli studi sui rendimenti dei fondi Esg? Cito qualche dato. A marzo 2020, allo scoppio della pandemia, l’indice Msci World è crollato del 14,5 per cento; ebbene, il 62 per cento dei fondi Esg a grande capitalizzazione ha avuto performance migliori rispetto all’indice stesso.
Un’analisi di Morningstar ha evidenziato che, sempre nel primo trimestre 2020, le aziende posizionatesi nel 10 per cento superiore della scala di valutazione della sostenibilità hanno retto molto meglio alla crisi rispetto a quelle posizionatesi nel 10 per cento inferiore. Anche nel secondo trimestre, 18 dei 26 fondi americani indicizzati Esg di Morningstar hanno ottenuto rendimenti superiori rispetto a quelli convenzionali focalizzati sugli stessi segmenti di mercato.
Anche una nostra ricerca, pubblicata qualche anno fa, evidenzia che tra il 2010 e il 2013 investire “alla vecchia maniera” era ancora positivo in termini di rendimento relativo; dal 2013 in avanti c’è stata un’inversione di tendenza, con performance superiori da parte del mercato Esg. Negli Usa, nel periodo che va dal 2014 alla pandemia, l’attenzione all’ambiente è stata correlata a performance estremamente positive. In Europa invece hanno reso molto bene le aziende con un migliore rispetto della governance.
Circola ancora un pregiudizio per cui investire in modo sostenibile significhi rinunciare alla performance per essere più etici. Non è così. Se le condizioni del Pianeta peggiorano significa che le aziende falliscono, che i clienti non consumano più determinati prodotti, che le crisi sanitarie ed ecologiche diventano anche finanziarie… Ecco perché Amundi nel 2018 si è impegnata a integrare entro tre anni l’analisi Esg in tutti i suoi fondi attivi, l’impegno che peraltro è stato mantenuto all’inizio di quest’anno: perché questo rende più resilienti i nostri investimenti, migliorando il loro profilo rischio-rendimento.
Qual è il vostro approccio all’engagement? Nelle gestioni attive noi abbiamo escluso alcuni comparti, come il carbone e le mine antiuomo, ed escludiamo anche le aziende che ottengono il punteggio più basso nel nostro screening Esg. Nelle gestioni passive invece siamo obbligati a replicare l’indice di riferimento, ma ci resta la possibilità di fare engagement. Nel 2020 abbiamo partecipato a circa 400 assemblee, votando contro le risoluzioni che riteniamo in contrasto con la transizione ecologica e la coesione sociale. Nel 2018 ci siamo impegnati a estendere la politica di engagement e proxy voting a tutte le aziende quotate internazionali che fanno parte dell’universo investibile, tutto questo entro tre anni.
Com’è cambiata l’attenzione alla sostenibilità da parte dei vostri clienti? Rispondo con un dato. In Italia a fine agosto 2021 la nostra raccolta netta nel retail superava i 6 miliardi di euro: più di un miliardo erano fondi articolo 9, legati per esempio alla sanità, alla transizione energetica, all’istruzione e così via. Anche grazie al Pnrr, in questo momento c’è sensibilità e c’è anche la percezione della possibilità di ottenere rendimenti partecipando alla transizione ecologica e sociale. Insomma, c’è un posizionamento della clientela retail, ed è transgenerazionale, non riguarda solo i millennials. Sono convinto del fatto che, in futuro, la sostenibilità diventerà un filtro, una precondizione per tutti gli investimenti: poi, attraverso i fondi a impatto, sarà possibile contribuire alla realizzazione di obiettivi specifici in materia di sostenibilità.
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