Si tratta di un’area di 202 chilometri quadrati nata grazie agli sforzi durati 16 anni delle comunità locali e nazionali a Porto Rico.
Nel parco nazionale del Gran Sasso i pascoli proteggono la vipera dell’Orsini e il tritone crestato
Sorge a Campo Imperatore, a circa 2100 metri di altitudine, il Gran Sasso, massiccio che dà il nome all’omonimo parco nazionale. La cresta svetta sull’intera catena montuosa, ribattezzata dal naturalista Fosco Maraini “Piccolo Tibet”: 148mila ettari di estensione, 44 Comuni coinvolti, decine di habitat e specie esclusive. Qui lo sguardo si perde tra le immense
Sorge a Campo Imperatore, a circa 2100 metri di altitudine, il Gran Sasso, massiccio che dà il nome all’omonimo parco nazionale. La cresta svetta sull’intera catena montuosa, ribattezzata dal naturalista Fosco Maraini “Piccolo Tibet”: 148mila ettari di estensione, 44 Comuni coinvolti, decine di habitat e specie esclusive.
Qui lo sguardo si perde tra le immense praterie, che terminano solo quando una cima si erge contro il cielo, tinto di blu cobalto. È qui che la natura prende il sopravvento e che diventa dimora per specie esclusive come la vipera dell’Orsini, il tritone crestato o il camoscio appenninico.
Il progetto Life Praterie del parco nazionale del Gran Sasso
Ma questi sono anche i luoghi dove pastori e allevatori da generazioni praticano il pascolo estensivo: qui decine e decine di greggi e mandrie pascolano libere, durante tutto l’anno. E qui, d’estate, giungono centinaia di turisti che spesso affollano questi luoghi, deturpandone sentieri e prati.
Per questo nasce il progetto Life Praterie, dalla volontà di mantenere in vita l’ambiente montano, proteggerne le specie simbolo e conservare le praterie alpine. Una collaborazione che ha visto in la partecipazione attiva di coloro che sono considerati come i custodi della montagna, ovvero i pastori e gli allevatori. Quest’ultimi infatti presidiano il territorio, sottraendolo all’abbandono, diventando a tutti gli effetti degli alleati del Parco nella conservazione.
Protetti gli habitat della vipera dell’Orsini, del tritone crestato e del camoscio appenninico
È tra i ghiaioni calcarei e gli specchi d’acqua alpini che vivono e si riproducono due tra le specie ritenute di importanza prioritaria per questi ambienti: la vipera dell’Orsini (Vipera ursinii), e il Tritone crestato italiano (Triturus carnifex), senza scordare il camoscio appenninico, simbolo del parco. La popolazione di quest’ultimo si aggira intorno ai 700 individui e costituisce un bacino di riferimento per le reintroduzioni in altre aree protette.
“Nel parco nazionale del Gran Sasso abbiamo habitat unici. Alcuni di questi si trovano alle altitudini più elevate del Sud Europa, dei rari ‘tratti’ di Artico nel mezzo del bacino del Mediterraneo”, spiega Carlo Catonica, botanico del Parco. “Il progetto Praterie ha visto tra gli obiettivi quelli della conservazione del pascolo, come metodo per mantenere la biodiversità. Questo è un vero hotspot, capace di ospitare oltre 2400 specie diverse”. Gli animali pascolando assicurano infatti il mantenimento del buono stato delle praterie.
Ma l’allevamento ha anche degli impatti, dovuti in particolare allo calpestio e all’utilizzo dei laghetti d’acqua dolce, habitat elettivo per il tritone. Perciò il progetto ha puntato ad una ridistribuzione dei punti di abbeverata, evitando la concentrazione del bestiame intorno a pochi punti d’acqua disponibili e facilitando allo stesso tempo il lavoro degli allevatori, in special modo nelle estati più siccitose. Il Parco ha restituito agli allevatori 7 abbeveratoi, tre costruiti ex novo e quattro ristrutturati, uno dei quali situato a 1800 m di quota. L’acqua in questo modo rimane pulita, e non è raro incontrare un esemplare di tritone.
Un cane come guardiano
Il progetto Life avviato nel parco nazionale del Gran Sasso ha permesso di avviare anche delle sperimentazioni. Alcuni cani pastori abruzzesi, dediti da sempre alla guardiania delle greggi, sono stati addestrati tramite tecniche di imprinting per fare da guardia anche alle mandrie di bovini. “Lavorare con i bovini è più complesso che lavorare con gli ovini, perché questi ultimi tendono a formare un gruppo unitario”, spiegano i veterinari del Parco. “Invece i bovini formano dei sottogruppi, composti al massimo da venti animali, che si disperdono sui pascoli, salvo riunirsi in alcuni momenti della giornata, come nel momento dell’abbeverata. I cani tendono a legarsi in particolare agli animali con cui sono stati da piccoli”. La femmina di pastore viene infatti fatta partorire in un box all’interno della stalla. In questo modo fin dai primi istanti di vita i cuccioli ricevono un condizionamento olfattivo e sensoriale che li porta a riconoscere l’odore dei bovini al pari di quello materno.
Un processo partecipativo che ha dato nuova linfa alla conservazione della biodiversità del parco, laborioso e spesso faticoso, ma che ha dato voce alla popolazione coinvolta. Si è così dimostrato come sia possibile coniugare l’attività umana con una gestione sostenibile del territorio, mantenendo la naturalità e tutta la bellezza che solo questi luoghi possiedono.
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