
La Corte europea per i diritti dell’uomo dà ragione alle Anziane per il clima: l’inazione climatica della Svizzera viola i loro diritti umani.
Dopo la condanna per inazione climatica, il Parlamento svizzero si oppone apertamente alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu).
Era aprile quando le Anziane per il clima, circa 2.300 donne over 65, hanno incassato una storica vittoria: la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo ha sancito che il loro stato, la Svizzera, non aveva fatto abbastanza per proteggerle dal riscaldamento globale, violando così i loro diritti umani. A poco più di due mesi di distanza, la doccia fredda: il Parlamento elvetico ha respinto la sentenza. Perché sostiene che la Corte abbia travalicato le proprie competenze e, in ogni caso, ritiene pienamente sufficienti le misure che ha già adottato contro i cambiamenti climatici.
Il 9 aprile 2024 la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) si è espressa su tre cause per inazione climatica. L’unica che ha dichiarato ammissibile è, appunto, quella intentata dalle Anziane per il clima, supportate dall’organizzazione ambientalista Greenpeace e assistite dal Global legal action network. Dopo aver esaminato il fitto dossier scientifico presentato dalle ricorrenti sui pericoli che le ondate di calore comportano per la salute delle donne anziane, la Corte ha ravvisato una violazione da parte della Svizzera dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sul rispetto della vita privata e familiare, e dell’articolo 6 sull’accesso alla giustizia.
Questa sentenza è stata immediatamente accolta con grande entusiasmo dalle organizzazioni ambientaliste anche degli altri stati europei. Perché cita esplicitamente le mancanze dell’amministrazione svizzera nel quantificare le emissioni di gas serra del paese e il suo carbon budget, nel rispettare gli obiettivi di riduzione che lei stessa in passato aveva prefissato e nell’ideare e mettere in atto leggi e misure contro la crisi climatica. E chiarisce che tutto ciò rientra nei suoi obblighi positivi ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione. Una sentenza del genere dunque rappresenta un precedente.
La sentenza ha scatenato un acceso dibattito in Svizzera. Già a maggio la Commissione degli affari giuridici del Consiglio degli Stati, la camera alta del Parlamento, aveva criticato la Cedu poiché sarebbe “andata oltre le sue competenze, ossia la protezione dei diritti individuali dallo Stato, creando di fatto nuovi diritti umani in ambito ambientale, ciò che non le compete”, come ha dichiarato il suo presidente Daniel Jositsch.
L’11 giugno anche la camera bassa (chiamata Consiglio nazionale) ha preso una posizione analoga. Con 111 voti a favore, 72 contrari e 10 astensioni, infatti, ha approvato un testo in cui, pur dichiarando di rispettare la Cedu, constata “con preoccupazione” che la sentenza “oltrepassa i limiti dell’interpretazione dinamica” e che la Corte “travalica i limiti dello sviluppo del diritto concessi a un tribunale internazionale” e “si espone al rimprovero di esercitare un attivismo giudiziario inammissibile e inappropriato”. Il documento arriva a dire che la Corte, con una decisione del genere, si espone a critiche alla sua stessa legittimità, il che potrebbe paradossalmente indebolire la tutela dei diritti umani in Europa.
In sostanza, la Svizzera rivendica la propria sovranità. E sostiene di non avere “alcuna ragione per dare ulteriore seguito alla sentenza pronunciata dalla Corte il 9 aprile 2024”, perché ha già fatto abbastanza per la tutela del clima, rispettando i propri impegni internazionali (in particolare quelli previsti dal Protocollo di Kyoto), varando una legge che fissa l’obiettivo delle zero emissioni nette al 2050 e modificando a marzo 2024 la propria legge sulla CO2. È vero che non ha presentato un carbon budget ma, d’altra parte, questo non è previsto dall’Accordo di Parigi. E può essere desunto a partire dagli obiettivi climatici al 2050. Per l’estate è previsto che il consiglio federale svizzero (cioè il governo) si esprima definitivamente sulla questione.
“Non è per nulla usuale una posizione così netta da parte dell’organo legislativo di uno stato membro del Consiglio d’Europa, di cui la Corte europea dei diritti dell’uomo è uno dei principali organi”, spiega a LifeGate Alessia Schiavon, direttrice esecutiva di Fibgar, fondazione per i diritti umani e la giustizia internazionale. La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, infatti, è un tribunale internazionale volto ad assicurare il rispetto della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (Cedu) da parte dei 46 stati membri. Questi ultimi, al ratificare la Convenzione (condizione indispensabile per aderire al Consiglio d’Europa), hanno riconosciuto alla Corte la facoltà non solo di applicare la Convenzione stessa, ma anche di interpretarla. L’articolo 46 della Cedu impone alle parti contraenti di “impegnarsi a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie in cui sono parti”. Se la giurisprudenza della Corte entra in conflitto con una legge nazionale, chiarisce la Cedu, è “inaccettabile” pensare di risolverlo rifiutandosi di attenersi alla sentenza stessa.
Come chiarisce Schiavon, “è usuale che ci sia un problema di implementazione”. Nel sistema Cedu, infatti, non c’è un’efficacia esecutiva diretta delle sentenze; si parla di efficacia esecutiva indiretta, perché gli stati hanno l’obbligo di adeguarsi ma scelgono individualmente come farlo. L’Italia stessa, per esempio, ci ha messo ben due anni a introdurre il reato di tortura dopo la condanna ricevuta dalla Cedu. Stando a un report pubblicato dalla Commissione europea, di tutte le sentenze principali emanate dalla Corte di Strasburgo nell’ultimo decennio che riguardano gli stati membri dell’Unione, il 40 per cento non era ancora stato attuato. In media, tale processo richiede 5 anni e un mese.
“È vero che la Corte ha un problema di enforceability, ma esiste comunque un sistema. Il Consiglio d’Europa ha un organo decisionale, il Comitato dei ministri, che è formato dai ministri degli Esteri degli stati membri e ha competenza sulla supervisione dell’esecuzione delle sentenze e mandato di assicurare che gli stati ne rispettino le previsioni. Ovviamente anche la Svizzera è parte di questo organo attraverso il suo rappresentante governativo, quindi la palla passa al consiglio federale svizzero. La questione nel comitato si fa complessa”, continua Schiavon. “Detto questo, è di certo preoccupante che uno stato firmatario della convenzione europea dei diritti dell’uomo, che si basa sulla natura vincolante delle pronunce della Corte, decida di demolire in questo modo la legittimità della Corte stessa”.
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