Dal mischiglio della Basilicata alla zucca malon del Friuli al cappero di Selargius, in Sardegna: i presìdi Slow Food che valorizzano prodotti dimenticati, ma di fondamentale valore per la biodiversità, il territorio e le comunità.
Parmigiano vs. parmesan
Il consorzio del Parmigiano Reggiano sbaraglia il “parmesan”. La Corte di Giustizia europea ha affermato che il falso parmigiano non pu
Le bustine di formaggio grattugiato fatte con formaggi duri
misti, con polverine e ingredienti non “garantiti” che erano
esportate in Francia con la scritta “parmesan” non potranno
più essere commercializzate in nessun paese europeo.
“Parmesan” non può più essere considerato un nome
comune o generico. E quello della Nuova Castelli di Dante Bigi,
contro cui i giudici di Lussemburgo si sono pronunciati, è
un prodotto preparato con una miscela di vari tipi di formaggi
grattugiati e ovviamente non rispetta il disciplinare della
denominazione d’origine del Parmigiano Reggiano.
La decisione è stata presa “per proteggere i consumatori e
per motivi di concorrenza”.
È uno degli elementi centrali della sentenza Ue: “Una
decisione importante a favore della tutela del consumatore e dei
prodotti tipici nazionali – ha commentato il Ministro delle
Politiche Agricole, Gianni Alemanno -. È una sentenza che ha
il valore di un simbolo”. E ora l’Ue solleverà il problema
della protezione delle denominazioni d’origine protette al Wto,
l’organizzazione mondiale per il commercio. Tutti contenti, e
più di tutti i responsabili del Consorzio del Parmigiano
Reggiano, che rappresenta 563 caseifici a cui fanno riferimento
circa 7000 produttori di latte, per una produzione che, l’anno
scorso, è stata di 108.425 tonnellate di Parmigiano, per un
fatturato di 880 milioni di euro ed un valore al consumo di oltre
un miliardo e 200 milioni di euro.
Il commento più puntuale di oggi è giunto dalle
colonne de “La Stampa”, a firma di Carlo Petrini, presidente di
Slow Food. “La sentenza della Corte di giustizia europea arriva
come il parmigiano sui maccheroni” si legge. “Nessuno può
fare un facsimile del parmigiano, battezzandolo all’inglese,
Parmesan. I furbi sono castigati e il consumatore può
distinguere l’originale dalle imitazioni. Quello che francamente fa
più specie, in questa vicenda, è vedere come l’atto
di pirateria, il tentativo di scippare una denominazione storica
per trarne vantaggi commerciali, venga non dall’estero ma dal cuore
stesso della regione di cui il Parmigiano è il vero e
proprio vessillo gastronomico…”
E conclude: “La lezione che si può trarre dalla vicenda
è ancora una volta la stessa: lavorare perché cresca
nei consumatori la capacità di distinguere il buono dal
cattivo e, di conseguenza, per collegare in un circolo virtuoso chi
compra con cognizione di causa e chi produce con serietà.
Solo così sarà possibile distinguere i prodotti di
qualità da chi si limita invece a produrre in serie cibi di
bassa lega, omologati e insapori, che a hanno a che vedere con il
patrimonio enogastronomico italiano e internazionale”.
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