“Le piazze italiane mi hanno salvato la vita”. Patrick Zaki non poteva scegliere parole più limpide per riabbracciare e ringraziare tutti coloro che per mesi hanno lottato per la sua libertà, tirandolo fuori da quel buco nero dei diritti umani chiamato Egitto lo scorso 20 luglio. Un luogo che il nostro paese ha imparato dolorosamente a conoscere a causa della vita interrotta del ricercatore universitario Giulio Regeni. Per quasi due anni abbiamo temuto che l’Egitto, sotto il governo autoritario del presidente Abdel Fattah al-Sisi avrebbe sospeso all’infinito anche quella di Patrick – che allora era uno studente universitario a Bologna – confinandola all’interno di una cella del carcere di Mansura e poi a Tora, al Cairo. Quei 22 mesi di prigionia sono raccolti in Sogni e illusioni di libertà. La mia storia, il libro di Patrick Zaki pubblicato il 13 ottobre scorso per la Nave di Teseo.
L’arresto di Patrick Zaki e la prigione di Mansura
“Ricordo perfettamente il momento del viaggio in macchina verso la prigione di Mansura. Ero partito, bendato, dall’aeroporto del Cairo in cui ero arrivato. È ancora uno dei ricordi peggiori che porto con me”, ci ha raccontato Zaki durante la presentazione del libro. Il giovane attivista descrive la sua vicenda carceraria come un “viaggio” che ruota attorno a tre stati d’animo: l’ansia dell’arresto e fra le udienze, la solitudine della detenzione e la speranza donatagli tantissimi che lo hanno sostenuto.
Pensieri che si sono avvicendati nel corso della sua permanenza in Egitto, lasciando quella che Zaki stesso definisce nel libro “una ferita profonda che non si rimargina”. È la ferita del carcere, che parte dal ricordo dell’arresto in aeroporto. Era il 7 febbraio 2020 quando Zaki atterra al Cairo da Bologna, dove frequentava il master Women’s and Gender Studies, per trascorrere qualche giorno in famiglia. Il biglietto aereo era un regalo di sua madre. Poco dopo l’arrivo, viene fermato dalla polizia e scompare per più di 24 ore.
Viene interrogato dalla polizia, che lo picchia ripetutamente per poi caricarlo su un veicolo verso Mansura, città natale di Zaki. Una volta arrivato viene arrestato e trattato alla stregua di un potenziale terrorista. L’accusa nei suoi confronti è di minaccia alla sicurezza nazionale del paese e di aver diffuso notizie false: “Quando ho capito di essere diretto nella prigione di Mansura mi sono detto: Patrick, qui rimarrai per molto tempo, forse per sempre. Da piccolo ho imparata che, una volta che finisci a Mansura è molto difficile tornare a casa”.
L’articolo costato la libertà a Patrick Zaki
Il nome di Zaki era noto alle autorità per via di un articolo sulle discriminazioni nei confronti dei cristiani copti in Egitto, scritto in arabo sulla piattaforma di notizie Daraj, nel 2019: “In realtà, posso dire che l’arresto ha aiutato a diffondere ciò che avevo da dire”, scherza Zaki, che aggiunge: “Prima che diventassi un prigoniero politico di fama internazionale, quell’articolo lo avevano letto solo una manciata di persone, ma ora è stato tradotto in più lingue e pubblicato in alcuni dei giornali più autorevoli al mondo”.
Una volta arrivato viene arrestato e trattato alla stregua di un potenziale terrorista. L’accusa nei suoi confronti è di minaccia alla sicurezza nazionale del paese e di aver diffuso notizie false:
Quando ho capito di essere diretto nella prigione di Mansura mi sono detto: Patrick, qui rimarrai per molto tempo, forse per sempre. Da piccolo ho imparata che, una volta che finisci a Mansoura è molto difficile tornare a casa.
Le terribili condizioni delle carceri egiziane
Oltre al momento dell’arresto sono i mesi, gli anni di prigionia a provare Patrick Zaki psicologicamente. Soprattutto a Tora, la prigione del Cairo in cui lo studente è stato trasferito dopo il primo periodo di detenzione a Mansura. È fra le mura della sezione 1 di Tora – quella riservata ai colpevoli di reati gravi, i terroristi e i capi dei Fratelli Musulmani e i prigionieri politici più pericolosi – che si consuma il periodo più disumanizzante della prigionia di Zaki: “Alcune guardie mi chiamavano Giulio”, ricordandogli così la vicenda di Giulio Regeni, si legge nel libro, che rivela così dei dettagli più sordidi del trattamento e lui riservato. A Tora, la descrizione delle condizioni carcerarie si arricchisce dei dettagli più inquietanti:
“In alcuni momenti, il sovraffollamento delle celle era tale da non riuscire a dormire appoggiando tutto il corpo a terra. Sei obbligato a dormire sul fianco, senza mai girarti. I detenuti sono incastrati l’uno con l’altro per non lasciare spazi.
In una prigione, dove è rimasto per un paio di giorni, Patrick e gli altri detenuti hanno un bagno comune e lo possono usare una volta al giorno, solo per cinque minuti. Zaki si sofferma poi sul trattamento riservato alle persone la cui salute mentale viene messa alla prova. In carcere, la stessa espressione si trasforma in uno stigma con cui identificare il recluso, un pungolo attraverso cui i carcerieri inaspriscono la sua pena: “Quando ho sentito una guardia parlare di salute mentale pensavo si riferisse alla presenza di uno sportello psicologico per i detenuti, invece era solo un modo per chiamare chi è rinchiuso aggravando le sue condizioni”.
“Il contagio della speranza”
“Nel linguaggio della prigione si dice Habsa e Kabsa – prigionia e pressione“, si legge nel libro di Patrick Zaki. Si riferisce all’enorme pressione psicologica che si unisce alle forme di degradamento fisico del carcere nel sistema penitenziario egiziano. In carcere Zaki è stato sottoposto a 18 udienze, ognuna delle quali si è conclusa con un rinvio di 45 giorni. Un meccanismo che alimenta frustrazione e sottrae energie e speranze ai detenuti.
Eravamo arrivati al Pantheon a Roma con un forte senso di angoscia, che si è trasformato in grande emozione. La notizia della grazia a Patrick Zaki è importante. Rimaniamo in attesa di dettagli e aspettiamo la rimozione del divieto di viaggio.https://t.co/bFB5SVcU6t
Ma nonostante i momenti di sconforto, ogni ritorno in carcere convinceva Zaki che quelle che aveva fatto fino a prima dell’arresto non andava abbandonato: “Da difensore dei diritti umani trascorrere quasi due anni in carcere è stato fondamentale per darmi la forza di continuare”. Un aiuto assolutamente vitale in questo senso è arrivato dalle piazze, soprattutto da quelle italiane, che hanno preso parte alla campagna di Amnesty International Free Patrick Zaki, i cui striscioni hanno campeggiato sui numerosi edifici sparsi per la penisola.
Ventuno università hanno aderito, 112 comuni insieme a Emilia-Romagna, Liguria e Toscana: “Le piazze italiane mi hanno salvato la vita. Se oggi sono libero è anche grazie alla pressione internazionale e alle richieste di libertà arrivate dall’Italia e non solo. In Italia l’attivismo mi ha salvato, è stata una chiave per rendere chiaro cosa sia il regime egiziano. E ricordiamoci che, tra tutte le persone che ho incontrato durante la mia detenzione, io sono un privilegiato. Sono ancora migliaia i prigionieri di coscienza nel mio paese”.
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