La presenza del lupo in Italia e in Europa è un argomento molto controverso. Un predatore che suscita timore ma che ricopre un ruolo fondamentale per la biodiversità.
Quando ero piccola mia madre mi regalò un libro dalla copertina rigida. Era rossa e bianca, in mezzo c’era il disegno di un lupo grigio: il pelo irto sulla schiena e il collo proteso all’insù mentre ululava alla luna. Quel lupo, o per essere più precisi, quel cane meticcio che aveva deciso di lasciare il mondo degli umani per guidare un branco di lupi tra le foreste dello Yukon, nel nordovest del Nordamerica, era Buck, coraggioso e indimenticabile protagonista de Il richiamo della foresta, scritto da Jack London e pubblicato nel 1903.
Forse più di qualsiasi altro evento, l’immagine di Buck che “balza gigantesco dinanzi ai compagni” ha segnato la mia vita, facendomi capire chiaramente da quale parte del mondo volevo stare e a quali creature sognavo di dare voce con le mie parole e le mie azioni. Ecco perché, quando ieri sera, da uno sperduto villaggio nel cuore dell’Amazzonia peruviana, ho letto della proposta della Commissione europea di declassificare lo status di protezione del lupo nel continente, non ho potuto fare a meno di chiedermi: fino a che punto vogliamo arrivare? E in base a quale logica?
In una conferenza stampa tenutasi il 4 settembre, il portavoce della Commissione ha dichiarato che l’aumento del numero di lupi – che attualmente ammonta a circa 17mila esemplari distribuiti in 28 paesi europei – richiede un riesame della situazione e, per questo, è stato deciso di avviare una fase di ascolto delle associazioni di agricoltori, allevatori, ambientalisti ed esperti al fine di valute future azioni di contenimento.
La stessa presidente Ursula von der Leyen, che l’anno scorso ha perso uno dei suoi pony a seguito dell’attacco di un lupo, ha affermato che il ritorno di questa specie in Europa “è un pericolo reale per il bestiame e per la vita umana”. Bestiame che, è bene ricordarlo, non identifica animali selvatici o da affezione bensì circa 134 milioni di maiali, 75 milioni di bovini, 59 milioni di pecore e 11 milioni di capre il cui destino è essere comunque uccisi ma per mano dell’essere umano.
#UPDATE The return of wolves to parts of Europe threatens livestock and perhaps people, EU chief Ursula von der Leyen warned on Monday, promising a review of the predator's protected status ➡️ https://t.co/QDJTEZ8OR6pic.twitter.com/tSl5jc4PPs
Il ritorno del lupo in Europa, inoltre, non è casuale, ma è il frutto di anni di politiche di tutela, come la direttiva Habitat entrata in vigore nel 1992, e progetti di conservazione che hanno permesso a questa specie di riprendersi e ripopolare regioni in cui anticamente ha sempre vissuto, ma da cui era stata eradicata con la forza fino a spingerla sull’orlo dell’estinzione.
In Italia, ad esempio, fino a mezzo secolo fa, la sola notizia di un lupo che si aggirava tra le campagne bastava a scatenare l’odio che culminava con battute di caccia che vedevano in testa parroco, sindaco e maresciallo dei carabinieri. Ovunque venivano disseminate tagliole e bocconi avvelenati e, una volta uccisa la fiera, veniva immortalata insieme all’intero gruppo che aveva portato a termine l’impresa. Poi, nel 1970, il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise ha promosso quella che venne chiamata Operazione San Francesco, una campagna lanciata ufficialmente nel 1971, in collaborazione con Wwf Italia, che aveva l’obiettivo di individuare e attuare una strategia che salvasse il lupo appenninico dallo sterminio.
Un’immagine difficile da riabilitare
Nonostante gli sforzi, però, ancora oggi il lupo è un animale in grado di suscitare paure primitive, spesso ingiustificate e alimentate da falsi miti e credenze vecchie di centinaia di anni.
Per rendersene conto basta leggere le centinaia di commenti anacronistici che accompagnano video e foto di avvistamenti, o ascoltare le parole dei molti rappresentanti politici che, nella fauna selvatica, vedono ancora un impedimento alla trasformazione della natura in un parco giochi anziché un bene comune da difendere ad ogni costo.
A cercare di riabilitarne l’immagine, attraverso le sue foto e il suo lavoro sul campo, è Antonio Iannibelli, fotografo naturalista e divulgatore. Nato nella Lucania profonda, e vissuto nel cuore del Parco nazionale del Pollino fino alla prima adolescenza, per lui il lupo è tutto tranne che una creatura sanguinaria e declassificarne la protezione “sarebbe un errore enorme frutto di una strumentalizzazione politica in totale controtendenza con il periodo storico e con quanto si dichiara a livello istituzionale. Penso, ad esempio, all’Italia che, il 28 febbraio 2022, ha allargato l’articolo 9 inserendo la tutela degli ecosistemi e della biodiversità anche nell’interesse delle future generazioni”.
“Nonostante lo sgomento generale, quella della Commissione europea non deve, però, essere vista come una doccia fredda”. Ne è convinta Mia Canestrini, zoologa, ricercatrice e scrittrice che, da più di dieci anni, studia con passione e determinazione i lupi e ogni elemento di quella intricata rete di relazioni naturali di cui anche noi facciamo parte.
“In Europa è da molti anni che si discute, più o meno apertamente, del passaggio da una strategia di conservazione ad una di gestione del lupo. Questo implica l’apertura di quote di prelievo venatorio come strumento per diminuire i casi di conflitto”. Ma, se tra le aule della politica le risposte sembrano facili e scontate, diversa è la loro applicazione.
La zoologa Mia Canestrini spiega l’uccisione dell’animale in Cadore da parte di un altro lupo. «Gli esemplari in dispersione faticano a trovare un loro spazio vitale» https://t.co/aNtIP5pP2W
“Procedere con l’abbattimento selettivo è una strategia che non mi trova d’accordo – spiega Canestrini – oltre ad essere complicata per svariati motivi. Innanzitutto sarebbe necessario provvedere alla formazione di una categoria di cacciatori dedicati e preparati al prelievo del lupo. Va inoltre considerato che in paesi come l’Italia, fortemente antropizzati, con un contesto ambientale e di allevamento peculiare e dove i lupi sono diffusi su tutto il territorio, e non solo all’interno di parchi e aree protette, il prelievo venatorio di qualche esemplare non risolverebbe niente perché laddove si abbattono due o quattro esemplari, ce ne sono altrettanti pronti a rimpiazzarne il ruolo. Si tratta, quindi, solo di un contentino per la categoria degli allevatori che, così, si sentono vendicati”.
“Senza contare – continua Canestrini – che laddove autorizzi il prelievo di una specie, quella perde di valore e la conseguenza diretta sarà l’aumento del bracconaggio come già avviene in altri casi”. Un quadro piuttosto rischioso che coinvolge già tra il 15 per cento e il 20 per cento della popolazione di lupo appenninico. Lo sa bene Iannibelli che spiega come “durante il censimento del 2022, che ha coinvolto ben tremila persone e coperto un territorio pari a circa un terzo della nostra penisola, sono stati scoperti ben 171 corpi di lupo appenninico in soli sette mesi”.
Nonostante tutto, in Europa il lupo non è più in pericolo di estinzione, ma è anche evidente che il suo stato di conservazione, in alcuni Paesi, rimane piuttosto critico: basti pensare alle popolazioni della Scandinavia
Francesco Romito, portavoce dell’associazione Io non ho paura del lupo
Nella regione nordeuropea, infatti, si è optato da qualche anno per l’abbattimento nella stagione invernale quale soluzione al “problema” dell’aumento del numero di esemplari e, nel 2022, solo in Norvegia sono stati uccisi ben 51 esemplari sugli ottanta che si riteneva vivessero nel Paese. Alcuni di questi, con l’avallo del Governo, anche all’interno delle aree protette nazionali.
“Inoltre – continua Romito – alla luce della recente approvazione della Nature restoration law appare anacronistico parlare di abbattimenti quando, come nel caso dell’Italia, non esiste nemmeno un piano di gestione ordinaria sul quale le regioni Italiane fanno fatica da tempo ad accordarsi. Al contrario, bisognerebbe lavorare maggiormente su cultura e prevenzione, affidandosi alla scienza e non procedendo sulla base di proclami politici e interessi privati”.
Il ruolo ecologico del temuto predatore europeo
In quanto predatore apicale, il lupo svolge un ruolo fondamentale negli ecosistemi europei e ha un impatto diretto e indiretto sulle popolazioni di ungulati come cervi e cinghiali. Una funzione che dovrebbe essere considerata anche sul lato economico visto che, solo in Italia – e come afferma la stessa Coldiretti – questi animali causano milioni di euro l’anno di danni al settore agricolo.
Se i predatori vengono rimossi, infatti, gli erbivori aumentano velocemente modificando la struttura della vegetazione, la successione delle specie, la produttività e, in ultimo, la diversità degli habitat portando alla proliferazione di ecosistemi semplificati o degradati. Un’evidenza, questa, portata alla luce più di cinquanta anni fa da Aldo Leopold (1949), ecologo e ispiratore della moderna biologia della conservazione, il quale, nella sua opera “Pensare come una montagna”, scrive di aver assistito sgomento all’eliminazione dei lupi “Stato dopo Stato e, di conseguenza, alla scomparsa di ogni cespuglio commestibile e di ogni piantina”.
Un numero consistente di prove, infatti, indica che la predazione da parte dei carnivori superiori è fondamentale per il mantenimento della biodiversità e che, per il solo fatto di essere presenti sul territorio, riescono ad influenzare il comportamento delle loro prede attraverso la cosiddetta ecologia della paura. Essi, infatti, inducono cambiamenti comportamentali e fisiologici nelle specie predate e creano un impatto positivo sul paesaggio. Infine, “branchi stabili di lupi in salute rappresentano un indicatore di ecosistemi ancora in buono stato e garantiscono una continua fonte di cibo agli spazzini, come sciacalli, volpi e uccelli necrofagi”, come sostengono i membri di Euclipa – la rete italiana degli Ambasciatori del Patto Europeo per il Clima – che, in un comunicato stampa, hanno dichiarato di dissociarsi da una presa di posizione che non ritengono compatibile con gli obiettivi dell’associazione.
I fantasmi delle foreste
Che fosse nel mezzo della tundra artica, in quel periodo dell’anno in cui muschi e licheni si tingono di rosso, o tra l’odore pungente di umido del nostro casentino, nel mio vagabondare alla scoperta della biodiversità ho sempre saputo di non essere sola.
Quando, per stanchezza o curiosità, mi siedo su una roccia umida, i mille suoni della foresta iniziano a farsi spazio, come un’orchestra senza maestro. Poi, lentamente, si crea un ritmo che impari a riconoscere: dalle foglie di acero e faggio, le gocce di pioggia iniziano la loro corsa verso il suolo. Le limacce si fanno spazio tra le radici mentre i funghi, silenziosamente impegnati nella loro opera di decomposizione, accolgono un frenetico ronzare che fa la spola tra le lamelle e il legno morto che riposa sul terreno.
Tra tutti questi suoni, io ho sempre cercato la musica del lupo. Elegante e incompreso fantasma dei boschi, senza saperlo questa creatura mi ha insegnato a guardare al di là del percepito e avanzare alla scoperta del mondo, alla ricerca di qualche angolo selvaggio in cui respirare. Dal lupo ho imparato che per vivere bene ci vogliono delle regole, ma che queste devono essere giuste e non imposte per fare del male. Ma anche che, dopo la fatica e l’impegno, c’è il momento del gioco, quando puoi correre e saltare tra le rocce, ricordando di prenderti sempre del tempo per riposare, sdraiarti al sole ad annusare l’erba.
Il lupo, maestro di vita inconsapevole per molti che, come me, hanno provato a comprendere. Ma per altri, purtroppo, vittima di credenze anacronistiche e di una mentalità che, ancora oggi, preferisce l’immobilismo della tradizione all’unica, vera, regola del gioco che dovremmo imparare a rispettare: la coesistenza.
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