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La pena di morte in Giappone c’è e si esegue in segreto
L’ultima delle esecuzioni capitali in Giappone è avvenuta, in segreto, l’11 novembre. Nel paese del Sol Levante i parenti del condannato non sanno quale destino lo aspetta.
Sette esecuzioni avvenute per impiccagione nel 2018, altrettante eseguite tra il 2017 e il 2016. Non siamo in Cina, Iran, Iraq o in un paese dimenticato dell’Africa subsahariana, ma nel paese del Sol Levante. Gli abolizionisti cominciano a far sentire la loro voce contro quelle che definiscono “esecuzioni segrete in Giappone”.
Leggi la notizia sull’esecuzione di Shoko Asahara, leader della setta Aum Shinrikyō, in Giappone
Giappone, tra esecuzioni segrete e torture
Da quando il falco della destra Shinzo Abe è stato eletto primo ministro per la seconda volta, il 26 dicembre 2012, le esecuzioni dei condannati a morte in Giappone sono aumentate. Organizzazioni internazionali come Amnesty International, ma anche locali, denunciano un aspetto che contravviene a ogni standard del diritto internazionale: la “segretezza” delle uccisioni. Queste ultime vengono cioè inflitte senza o con pochissimo preavviso al detenuto, mentre i famigliari, gli avvocati e l’opinione pubblica sono informati solamente a esecuzione avvenuta.
Anche nel braccio della morte, i condannati giapponesi subiscono trattamenti non adeguati a un paese civile. Gli esperti delle Nazioni Unite riportano che ai difensori è negata la possibilità di svolgere il loro lavoro in modo appropriato. Inoltre, i prigionieri sono soggetti alla tortura della luce accesa 24 ore su 24 e ad altre imposizioni, come il restare seduti a schiena dritta per tutta la durata del giorno, tranne nel momento di coricarsi. In una cella d’isolamento di cinque metri quadrati, non possono parlare con altri detenuti e hanno contatti limitati con i parenti. L’unico mezzo usato per infliggere la morte è il cappio.
Abolizionisti giapponesi, qualcosa si muove
A ottobre, una federazione di 37mila avvocati giapponesi e centinaia di funzionari legali, la Japan federation of bar associations, ha chiesto di abolire la pena capitale, evidenziando il rischio di assassinare degli innocenti e il fatto che non ci sia prova che il suo mantenimento funzioni da deterrente, ovvero riduca i crimini. È accaduto che alcuni detenuti uccisi o in attesa di essere impiccati fossero e siano disabili mentali.
Assurda, ma soprattutto tragica, è la storia dell’ottantenne Iwao Hakamada che ha contribuito a scuotere l’opinione pubblica giapponese, sempre ritenuta dai sondaggi ampiamente favorevole alle esecuzioni. L’ex pugile e impiegato d’azienda è in attesa di essere ucciso dal 1968, pur essendo stato liberato due anni fa, quando un tribunale stabilì che le prove fornite al processo contro di lui erano state “fabbricate ad hoc” dagli investigatori. Dopo l’omicidio plurimo del suo datore di lavoro e dei suoi famigliari, la polizia avrebbe inoltre estorto con inganno e torture la sua unica ammissione di colpevolezza.
Ha raccontato l’uomo col viso gonfio, gli occhi spenti e problemi di deambulazione: “Non potevo far altro che accovacciarmi sul pavimento cercando di non defecare […] Durante quei momenti qualcuno ha messo il mio pollice su un tampone di inchiostro, lo ha premuto sotto una confessione scritta e mi ha ordinato: ‘scrivi qui il tuo nome’ mentre mi inveiva contro, mi prendeva a calci e mi stritolava il braccio”. Hakamada Iwao, dopo questo episodio, si è sempre proclamato innocente.
“Il 14 marzo 2012 un campione di sangue viene prelevato da Hakamada Iwao per un nuovo test del dna da confrontare con il sangue presente su una maglietta rinvenuta sulla scena del delitto – si legge sul sito di Amnesty –. La svolta arriva nel marzo 2014: il tribunale di Shizuoka ha deliberato che Hakamada Iwao ha diritto a un nuovo processo, ordinandone la scarcerazione”. Ma il Giappone non commuta condanne a morte dal 1975. Che ne sarà, dunque, di questo anziano dalla salute precaria? Qualora dichiarato innocente, chi gli restituirà un’intera vita perduta? Partendo, forse, da tali interrogativi, il regista Kim Sung Woong ha realizzato il documentario Freedom moon.
Giappone e Stati Uniti gli unici stati dell’Ocse con la pena capitale
Dei 35 dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (Ocse), altrimenti detti “sviluppati”, solamente gli Stati Uniti – oltre al Giappone – mantengono la pena capitale nella maggior parte dei loro Stati. Con Donald Trump presidente, si teme una frenata al processo di abolizione in atto. Anzi, segnali in questa direzione sono già arrivati proprio l’8 novembre scorso, giorno dell’elezione del magnate statunitense ma anche di una serie di referendum, fra i quali tre sulla pena di morte. Gli esiti non sono stati incoraggianti: in California ne è stata respinta l’abrogazione, con triste stupore di tutta la redazione dell’autorevole Los Angeles Times, in Oklahoma è stata confermata e in Nebraska reintrodotta.
Nel mondo sviluppato, sconvolto dalla crisi economica e dalla risalita dell’estrema destra, l’Unione europea si pone come baluardo in difesa dei diritti civili, fin dall’epoca illuminista. In Francia e poi in Italia, con Cesare Beccaria, si diffuse il dibattito abolizionista. La delegazione europea in Giappone, i capi missione degli stati membri dell’Ue e quelli di Norvegia e Svizzera hanno severamente condannato l’ultima esecuzione in ordine di tempo di Kenichi Tajiri, 45 anni. Il colpevole di duplice omicidio era stato consegnato nel braccio della morte da una giuria popolare nel 2012.
Anche Sant’Egidio, l’istituto di cultura italiano a Tokyo e membri del nostro parlamento sostengono la Federazione degli avvocati giapponesi che auspica nella sospensione delle “impiccagioni di Stato” entro il 2020, quando il Giappone ospiterà le Olimpiadi e il Congresso della Nazioni Unite sulla prevenzione dei crimini e sulla giustizia penale. Tutti gli abolizionisti ritengono che, qualunque sia il crimine, la pena capitale sia espressione di violenza e non una soluzione a essa.
Il Giappone governato da Shinzo Abe, esponente dell’ala più conservatrice del Partito liberal democratico, è severamente colpito dalla povertà e da venti reazionari, sebbene stiano emergendo movimenti per la salvaguardia dell’ambiente, dei diritti civili e gruppi solidali verso i più indigenti.
Nel 2015 le esecuzioni sono aumentate, secondo Amnesty International, senza contare quelle avvenute in Cina dalla quale è impossibile ottenere delle stime attendibili. In Asia meridionale e orientale, gli altri paesi che mantengono la pena di morte, oltre a Cina e Giappone, sono Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Malesia, India, Vietnam, Thailandia, Taiwan, Corea del Nord, Indonesia.
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