È stata pubblicata lo scorso 8 dicembre la diciannovesima edizione del Climate change performance index. L’analisi, curata dalle organizzazioni non governative Germanwatch, New climate institute e Climate action network, valuta la performance climatica di 63 nazioni e dei paesi membri dell’Unione europea. Si tratta di un gruppo di stati che, complessivamente, rappresenta più del 90 per cento delle emissioni globali di gas ad effetto serra. E i cui risultati appaiono, complessivamente, decisamente mediocri.
Agli ultimi posti i paesi del Golfo, compresi gli Emirati Arabi Uniti
I tre primi posti sono infatti, simbolicamente, vuoti. Nessuna nazione ha ottenuto dei punteggi sufficientemente buoni da giustificare l’occupazione di una delle posizioni del podio. Il che indica quanto ancora li mondo sia lontano dall’assumere seriamente la responsabilità di guidare una transizione che possa portare all’attuazione concreta di quanto prescritto dall’Accordo di Parigi. Ovvero, in primo luogo, limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 1,5 gradi centigradi, entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali.
Ever wondered how your country's #ClimateAction compares internationally?
Here's the final ranking of this year's Climate Change Performance Index #CCPI2024, comparing the measures of 63 countries + EU.
La nazione che è stata giudicata migliore in termini di performance climatica, e dunque quarte nella classifica del Climate change performance index, è la Danimarca. Segue un altro paese europeo, l’Estonia. Al terzo posto figurano invece le Filippine. Alle ultime posizioni, senza sorprese, ci sono invece le nazioni petrolifere, a cominciare dagli stati del Golfo: compresi gli Emirati Arabi Uniti, che ospitano la ventottesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, la Cop28 che si sta per chiudere a Dubai.
L’Italia passa dal 29esimo al 44esimo posto dell’indice della performance climatica
Decisamente scarso il risultato dell’Italia. Il nostro paese è infatti precipitato in classifica rispetto allo scorso anno, passando dal 29esimo al 44esimo posto. Un calo, dunque, di ben quindici posizioni. “Un risultato – ha commentato Legambiente – raggiunto soprattutto per il rallentamento della riduzione delle emissioni climalteranti (37esimo posto della specifica classifica) e per una politica climatica nazionale (58esimo posto della specifica classifica) fortemente inadeguata a fronteggiare l’emergenza. Infatti, l’attuale aggiornamento del Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) consente un taglio delle emissioni entro il 2030 di appena il 40,3 per cento rispetto al 1990. Un ulteriore passo indietro rispetto al già inadeguato 51 per cento previsto dal Pnrr”.
L’Italia, tra l’altro, non soltanto appare lontana dai partner europei, ma presenta un punteggio ben inferiore anche ad una serie di nazioni emergenti, come nei casi di India, Marocco e Cile. Meglio del nostro paese fanno anche, tra gli altri, Nigeria, Egitto, Tailandia, Vietnam, Pakistan, Indonesia e Messico.
Cina 51esima, Stati Uniti 57esimi secondo il Climate change performance index
Anche altre nazioni europee figurano tra le prime dieci (ovvero dal quarto al tredicesimo posto): Paesi Bassi, Svezia, Norvegia e Portogallo. Germania e Lussemburgo sono rispettivamente quattordicesima e quindicesimo. Mentre l’Unione europea presa nel suo complesso risulta sedicesima (guadagnando tre posizioni rispetto all’edizione precedente). Da notare il fatto che le due nazioni che emettono in assoluto le maggiori quantità di gas climalteranti, la Cina e gli Stati Uniti (che assieme rappresentano il 41 per cento a livello mondiale) presentano dati decisamente deludenti: si trovano rispettivamente al 51esimo e al 57esimo posto.
Un altro elemento di riflessione che arriva dal Climate change performance index è che gli sforzi nello sviluppo delle fonti rinnovabili non bastano. Non è sufficiente, in altre parole, limitarsi ad investire nel solare e nell’eolico se, al contempo, non si avvia un processo serio, rapido e privo di scappatoie, di uscita da carbone, petrolio e gas. Ciò per dimezzare le emissioni globali di gas ad effetto serra, e mantenere così in vita la possibilità di centrare l’obiettivo degli 1,5 gradi.
Occorre dimezzare le emissioni globali entro il 2030
“Nonostante il boom delle rinnovabili, infatti, la corsa contro il tempo continua. Entro il 2030 – spiega Mauro Albrizio, responsabile ufficio europeo di Legambiente – le emissioni globali vanno quasi dimezzate, grazie soprattutto alla riduzione dell’uso dei combustibili fossili”. La classifica, infatti, si basa su quattro indicatori: la riduzione delle emissioni e la crescita delle rinnovabili, appunto, ma anche i dati relativi al consumo di energia e le politiche climatiche nel loro complesso. E, evidentemente, c’è da migliorare in tutti i settori.
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