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La nuova edizione del Climate change performance index constata pochi passi avanti, da troppi paesi, per abbandonare le fossili. Italia 43esima.
Non c’è ancora un vero impegno per uscire dalle fonti fossili, nonostante la rapida crescita delle rinnovabili. È questa, in estrema sintesi, l’amara constatazione che giunge dalla ventesima edizione del Climate change performance index (Ccpi 2025), curato dalle organizzazioni non governative Germanwatch, NewClimate institute, e Climate action network.
Secondo il documento, le fonti di energia pulita come solare ed eolico, “stanno registrando rapidi progressi in quasi tutte le nazioni che presentano alti livelli di emissioni di gas ad effetto serra”. Il problema, è che a ciò non si affianca una contemporanea riduzione drastica dello sfruttamento di carbone, petrolio e gas.
Si tratta di una constatazione inquietante, ma che non sorprende: anche nelle ultime Conferenze mondiali sul clima delle Nazioni Unite, nonostante le enormi distanze nei punti di vista dei governi di tutto il mondo, almeno sul principio secondo il quale occorre triplicare la potenza installata delle rinnovabili ci si è trovati d’accordo. Ciò in quanto a dividere non è lo sviluppo del solare o delle eolico. Ma, appunto, proprio l’abbandono dei combustibili fossili.
Il Ccpi 2025 ha analizzato complessivamente 63 paesi, ai quali si aggiunge l’Unione europea nel suo complesso. Le nazioni in questione coprono circa il 90 per cento delle emissioni globali di gas ad effetto serra. Ebbene, benché negli ultimi cinque anni ben 61 stati abbiano visto crescere la quota di energie rinnovabili nel proprio mix energetico, i trend sono considerati ancora come “bassi” se non “molto bassi” in addirittura 29 nazioni. Quasi la metà del totale.
Per questa ragione, anche quest’anno, simbolicamente i primi tre posti dell’indice sono stati lasciati vuoti. A segnalare il fatto che nessuno sta agendo in maniera sufficiente per allinearsi agli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Al quarto posto figura la Danimarca: “Si tratta dell’unico paese ad ottenere punteggi elevati nella valutazione delle politiche climatiche”, spiega il rapporto. Seguono al quinto posto i Paesi Bassi, benché l’ottimo risultato registrato alle elezioni dall’estrema destra non lasci presagire niente di buono. Migliora invece nettamente la performance del Regno Unito, che quest’anno raggiunge il sesto posto nell’indice. ciò grazie al superamento del carbone e all’impegno del nuovo governo laburista di Londra di non concedere nuove licenze per l’estrazione di combustibili fossili.
Di contro, ci sono nazioni come l’Argentina che hanno fatto enormi passi indietro. La nazione sudamericana è scivolata infatti al 59esimo posto nella classifica stilata dalle tre ong. Mentre le ultime piazze sono occupate, come di consueto da Iran, Arabia Saudita, Russia ed Emirati Arabi Uniti. Non a caso quattro tra i più grandi produttori di gas e petrolio del mondo. Sui loro territori, la quota di energia prodotta attraverso fonti rinnovabili è inferiore al 3 per cento.
Ma soprattutto, dai loro governi non arriva alcun segnale che possa lasciare immaginare un cambiamento di rotta: “La maggior parte delle nazioni ha riconosciuto che le rinnovabili sono più efficienti dal punto di vista economico e più sicure. A ciò si aggiunge il fatto che è in atto un’importante elettrificazione della mobilità. Mentre tecnologie più avanzate per lo stoccaggio sono in fase di sviluppo. Eppure, la resistenza della lobby delle fossili è ancora enorme. I governi non devono rimanere incastrati nella loro trappola”, ha commentato Jan Burck, di Germanwatch, tra gli autori del rapporto Ccpi 2025.
Quest’ultimo analizza, ovviamente, anche il caso della Cina. Che è in qualche modo emblematico: la nazione asiatica sta vivendo in effetti un boom senza precedenti delle rinnovabili. E le emissioni complessive di gas ad effetto serra sembrano aver raggiunto un picco. Ciò nonostante, nella classifica non si supera il 55esimo posto: “Malgrado le promesse – si legge nel documento – i dati indicano che la Cina rimane pesantemente dipendente dal carbone e manca di sufficienti obiettivi climatici”.
Fanno ancora peggio gli Stati Uniti, che si piazzano al 57esimo posto: “L’aumento degli investimenti in rinnovabili e trasporti puliti, assieme alla fine dei sussidi alle fonti fossili, potrebbero rappresentare dei passi avanti concreti”. Ma l’esito delle recenti elezioni, con il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, difficilmente potranno far sì che gli Usa scalino la classifica nei prossimi anni.
In generale, solamente due nazioni del G20 sono presenti nei primi decima posti della classifica: oltre al Regno Unito, c’è l’India che si classifica decima. Un problema enorme, se si tiene conto che i paesi membri del gruppo rappresentano oltre il 75 per cento delle emissioni globali.
Per quanto riguarda infine l’Italia, il rapporto la pone in 43esima posizione. Lontanissima ad esempio dalla prima economia europea, la Germania, che risulta 16esima. Per il nostro paese, l’indice spiega che “sono state autorizzate nuovi progetti di gas fossile e il potenziale di energia rinnovabile nazionale non è stato raggiunto”. Per questo si suggerisce di indicare una data più ambiziosa per l’abbandono del carbone, di bloccare le nuove estrazioni di combustibili fossili e di centrare un calo delle emissioni del 65 per cento entro il 2030. Se si vuole rimanere coerenti e in linea con l’obiettivo di limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 1,5 gradi centigradi, entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali.
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