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L’acqua in bottiglia è un’anomalia tutta italiana
Con 14 miliardi di litri all’anno, l’Italia è il paese che consuma più acqua in bottiglia in Europa e il secondo nel mondo. Un business spesso a discapito di ambiente e cittadini. L’editoriale di Legambiente.
L’acqua in bottiglia è un’anomalia tutta italiana. Un business che si aggira intorno ai 10 miliardi di euro all’anno e che corrisponde a un fatturato di 2,8 miliardi per le sole aziende che imbottigliano. Tutto questo a fronte di canoni di prelievo dalle fonti a dir poco ridicoli, che al massimo arrivano a 2 millesimi di euro al litro. Tradotto, significa che i privati, sull’acqua, fanno affari d’oro, mentre le casse dello stato, i cittadini e l’ambiente ci rimettono.
Italia prima in Europa e seconda nel mondo
Perché è un settore che da noi non conosce crisi (con una produzione che oscilla tra i 7 e gli 8 miliardi di bottiglie all’anno) e perché lo scarto tra costi e guadagni per le aziende è favoloso (parliamo di un costo di 250 volte inferiore rispetto al prezzo medio di vendita dell’acqua in bottiglia). Con oltre 260 marchi distribuiti in 140 stabilimenti che imbottigliano oltre 14 miliardi di litri necessari per fare fronte all’esorbitante consumo nazionale, pari a 206 litri a persona all’anno, secondo i dati del Censis, siamo il Paese che in Europa consuma più acqua in bottiglia. Nel mondo, ci precede solo il Messico.
È questo il quadro che emerge dallo studio Acque in bottiglia. Un’anomalia tutta italiana di Legambiente e Altreconomia pubblicato in occasione della Giornata mondiale dell’acqua. Alla base del primato tutto italiano c’è il falso mito che l’acqua in bottiglia sia migliore e più controllata di quella del nostro rubinetto e soprattutto c’è un costo della materia prima (l’acqua), per chi imbottiglia, praticamente nullo: una media di appena 1 millesimo di euro al litro.
Se è vero che l’acqua è un bene primario, vitale e da preservare, purtroppo continua a essere gestita come se fosse proprietà privata con enormi guadagni. Per questa ragione occorre stabilire un criterio nazionale che fissi in almeno 2 centesimi al litro il costo dell’acqua di sorgente prelevata dalle aziende. Un canone comunque irrisorio, ma già dieci volte superiore a quello attuale e che permetterebbe alle regioni di incrementare gli introiti di almeno 280 milioni di euro l’anno, da reinvestire in politiche e interventi in favore dell’acqua del rubinetto e per la tutela della risorsa idrica, oggi messa a dura prova anche dai cambiamenti climatici e dalle continue emergenze siccità.
Regolamentare diversamente le concessioni avrebbe più di un vantaggio. Per esempio, quello di fare crescere l’utilizzo dell’acqua del rubinetto e ridurre l’eccessivo uso di bottiglie di plastica. Un obiettivo che è anche al centro della nuova legislazione europea, dalla Plastic strategy alla nuova proposta di revisione della direttiva sulle acque potabili presentata lo scorso 1 febbraio, con una riduzione del 17 per cento dei consumi di acqua in bottiglia di plastica e un risparmio conseguente per le famiglie europee pari a 600 milioni di euro l’anno.
Concessioni per il prelievo dell’acqua dalle fonti
Oggi si contano oltre 290 concessioni attive nel territorio italiano per un totale di circa 250 chilometri quadrati di aree date in affidamento. I canoni applicati dalle regioni seguono tre criteri in funzione degli ettari in concessione, dei volumi emunti e di quelli imbottigliati: solo cinque regioni applicano tutti e tre i criteri previsti (Emilia Romagna, Lazio, Molise, Sicilia e provincia autonoma di Bolzano), mentre in tre (Abruzzo, Sardegna e Toscana) applicano un solo canone. I prezzi applicati vanno da un minimo di 21,38 euro per ettaro previsto in Emilia Romagna ai 130 previsti in Puglia ai 587,68 applicati in Veneto nelle concessioni di pianura.
L’aspetto più interessante riguarda però il canone per i quantitativi imbottigliati, che presentano un valore medio di 1,15 euro/metro cubo, ovvero 1 millesimo di euro al litro, che può salire nel migliore dei casi ai 2,70 euro/metro cubo applicato dalla provincia autonoma di Bolzano (corrispondente comunque a 2,7 millesimi di euro al litro) e che invece può ridursi fino a 0,30 euro a metro cubo come avviene in Abruzzo. Puglia, Umbria e Sardegna non prevedono canone per i quantitativi d’acqua: se venisse applicata la proposta di Legambiente in queste tre regioni, solo per fare un esempio, i possibili introiti per le casse regionali e comunali sarebbero rispettivamente di 1,2, 6,7 e 22,6 milioni di euro/anno. Nonostante siamo un Paese ricco d’acqua, per lo più di buona qualità, esistono purtroppo alcune criticità nel sistema di approvvigionamento, di gestione e di controllo che spesso contribuiscono ad alimentare la sfiducia nei confronti dell’acqua del rubinetto, che oggi riguarda circa un terzo delle famiglie italiane.
Ma l’inadeguatezza della rete idrica, i casi di razionamento delle acque in varie città italiane, o le situazioni di contaminazione dell’acqua potabile, sono situazioni puntuali per lo più note e segnalate dalle autorità competenti, che non devono essere generalizzate su tutto il territorio nazionale. I controlli sull’acqua che arriva nelle nostre case sono molto accurati e frequenti (a Roma vengono eseguiti circa 250mila controlli all’anno) e la normativa è in continuo aggiornamento. Insomma, le ragioni della passione tutta italiana per le bottigliette d’acqua non possono riguardare la sicurezza per la salute. Per questo è necessaria, accanto a una profonda riforma del sistema dei canoni per le aziende, un’operazione trasparenza verso i consumatori, per garantire informazioni corrette e maggiore consapevolezza rispetto alle scelte in fatto di acqua da bere.
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