Allarme per l’anomalia climatica sulla cima della montagna più famosa e venerata del Sol Levante dopo un’estate e un ottobre caldissimi.
L’alpinista Hervé Barmasse: “La montagna ha bisogno di persone coraggiose che la difendano”
Quattro chiacchiere sui cambiamenti climatici e il rapporto con la montagna con Hervé Barmasse, l’alpinista italiano che parla soprattutto di rispetto e cultura, più che di grandi imprese.
Alpinista, ma soprattutto attento conoscitore della montagna, della sua storia e della cultura che la contraddistingue, Hervé Barmasse ha, in oltre 20 anni di attività, scalato vette mitiche, tra cui quella di casa, dove è nato, il Cervino. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’anteprima della Milano montagna week al Vibram Connection Lab, lo spazio milanese e luogo d’incontro dedicato a innovazione tecnologica, ambiente e sostenibilità dell’azienda leader nella produzione di suole per scarpe sportive outdoor, di cui Barmasse è ambassador. Qui ci ha parlato non di grandi imprese, ma di rispetto, quello necessario oggi per affrontare la montagna e insieme preservarla. “L’uomo – dice Hervé – dev’essere il cavaliere delle montagne”.
Negli ultimi 100 anni i ghiacciai delle Alpi si sono dimezzati. Anche il suo Cervino subisce le conseguenze dell’aumento delle temperature e si sta piano piano sgretolando. Lei che conosce da sempre questa montagna – le sue prime ascese si sono svolte proprio sul Cervino – cosa può dirci sulla situazione oggi?
È innegabile che le montagne stiano cambiando e cambiano molto di più là dove c’erano i ghiacciai che ora stanno arretrando e si stanno abbassando. Sul Cervino lo si percepisce molto perché c’è meno neve, anzi non ce n’è proprio, quest’estate non c’è mai stata. È una cosa preoccupante per chi come me scala questa montagna da anni e che, oltre alla mia, ho l’esperienza di mio padre, di mio nonno e anche del mio bisnonno. Sul Cervino il panorama è mutato.
Questo fa sì che la montagna possa anche diventare più pericolosa da gestire: infatti non siamo abituati a temperature simili, né allo zero termico così alto. È stata diffusa la notizia del Cervino che si sgretola perché effettivamente spesso le rocce sono tenute assieme dal ghiaccio, che non vedi ma è sotto la roccia (il permafrost), e quando questo si scioglie la roccia scivola e cade. Il problema vero però è che questa cosa non è prevedibile prima, quindi si è creato un po’ di allarmismo. Il Cervino si sgretola piano piano da sempre, dicono i geologi, perché è fatto di una roccia non tanto buona. Una cosa è certa: nell’ultima estate i ghiacciai facevano pena, sembrava chiedessero pietà. Il ghiacciaio non è più bello come un tempo ma è grigio, scuro, nero. So che è una similitudine forte, ma sembra la schiena di un uomo frustato. Quei segni, quelle frustate sono i crepacci neri che si aprono che non si sono mai visti prima, sembra che urlino, un po’ come l’Urlo di Munch.
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Come si ricorda il Cervino nel 2000, a inizio carriera?
Nel 2000 c’era ancora tanta neve, si riusciva a sciare sino a fine giugno fino a 2.500 metri con la neve caduta in inverno. Ora è impensabile. Mi ricordo, quando avevo 14 anni, sul Monte Rosa e a Plateau Rosà strati di ghiaccio che ora sono completamente scomparsi, parlo di 50/60 metri di ghiaccio.
Vista la situazione attuale di cosa ha bisogno concretamente la montagna?
La montagna ha bisogno di persone coraggiose, che vadano controtendenza, che la difendano. Andare controtendenza vuol dire preservarla dall’uomo, non specularci più sopra ma questo è molto difficile, specialmente nell’arco alpino dove c’è la maggior parte di turismo concentrato. Per esempio, ci sono delle stazioni di sci che non hanno più ragione di esistere, dove l’innevamento artificiale va a modificare le fonti e i bacini idrici. Questo oggi non è più ammissibile, perché c’è meno acqua. Persino in Valle d’Aosta ci sono stati dei momenti critici per carenza di acqua ed è una cosa strana pensare che accada in montagna.
La montagna non è solo sciare, turismo e divertimento ma è legata anche all’agricoltura, ai prodotti locali, ai malgari. La montagna sta cambiando, ed è vero che ci si può adattare, ma forse più che noi ad adattarci a questi cambiamenti, dovremmo essere sensibili e cercare di ridurre il cambiamento in atto. Molti si chiedono se è vero o non è vero quello che si dice sullo stato delle montagne, i dati spesso sono contrastanti, però nel dubbio, dobbiamo fare qualcosa tutti. Non fare nulla non è una soluzione.
È strano che proprio in un periodo in cui la montagna riscuote così tanto successo e interesse, non cresca di pari passo l’attenzione e la cura per lei e chi la abita. Cosa ne pensa?
L’uomo deve essere il cavaliere delle montagne: quello che succede in Himalaya ma anche sulle Alpi, non esiste, bisogna rispettarla e preservarla. Se sei capace di salire con i tuoi mezzi bene, se hai bisogno di mezzi artificiali che poi vengono abbandonati sulla montagna, allora è meglio che tu non salga. Proprio per rispetto di ciò che tu dici di amare. Il problema è che l’uomo ragiona a breve termine. Non riesce a essere lungimirante, soprattutto per quanto riguarda l’ambiente.
Spesso sentiamo parlare di montagna e soprattutto di alta montagna solo in merito a vicende tragiche (vedi il caso Nardi) o a eventi che in realtà con questa dimensione hanno poco a che fare (il caso del concerto di Jovanotti in vetta tra tutti). Come vorrebbe si raccontasse la montagna?
Non vado contro un certo modo di vivere la montagna che è diverso dal mio, credo che se c’è del rispetto possano coesistere. Però dovrebbe essere dato spazio anche all’altra montagna, quella fatta di persone silenziose, che la corteggiano perché vogliono arrivarci in cima e magari, accorgendosi che non ce la fanno, preferiscono tornare sui loro passi; di anime scrupolose che se vedono un sentiero rovinato si fermano e lo aggiustano; di uomini e donne che tengono alla montagna in modo differente, che fanno meno baccano ma non dovrebbero avere meno voce degli altri. Queste differenti realtà possono comunque coesistere, la chiave è il rispetto. Riguardo a Jovanotti penso si sia strumentalizzata la sua iniziativa. Nessuno si è lamentato e anche Messner si è ricreduto dopo aver giustamente posto l’attenzione sul rispetto.
E poi: è vero che la montagna, spesso, è tragedia ma allora uno si chiede “siamo tutti pazzi?! Tutti a cercare la morte? No, a cercare la vita”.
Proprio a questo proposito: qual è il suo rapporto con il rischio e la paura? Cosa sono per lei? E come li affronta?
La montagna è fatta di pericoli. Come in generale la vita. Ma in montagna questi crescono. Noi alpinisti ci prendiamo i nostri rischi per affrontarli. Quel che so è che devi viverli con paura, perché la paura ti dà un metro di misura. La paura è un campanello d’allarme. Un po’ diverso è il panico, quello non va bene mai: in montagna quasi sempre il panico significa morte certa. Io momenti di panico in montagna non ne ho mai avuti, di paura sì. Si deve anche avere il coraggio di ammettere di avere paura, e spesso gli alpinisti non ce l’hanno.
La sua passione la vive in prima persona come alpinista ma ama anche raccontarla attraverso i libri (“La montagna dentro”) e film e documentari (tra gli altri “Il Cervino, la montagna perfetta”). Che libri consiglierebbe a chi come lei ama la montagna?
Il primo è “Ho scelto di arrampicare” di Chris Bonington, che regala una visione molto romantica dell’alpinismo di 40 anni fa; di fine Settecento inizio Ottocento è “Primo di cordata” di Roger Frison-Roche, anche questo un ottimo libro. E poi tutti i libri di Bonatti, e molti di Messner. Tra i miei preferiti c’è senz’altro “I conquistatori dell’inutile” scritto da Terray Lionel, un libro che io definisco “la bibbia dell’alpinista”. Questo alpinista ha raccontato che in alta montagna ci sono delle cose apparentemente facili, molto pericolose e altre invece molto tecniche che non sono assolutamente pericolose. Ai giovani, che nella disciplina oggi guardano molto al tecnicismo ma poi hanno paura di vivere una vera avventura, lo consiglierei.
Come lei stesso ha detto, viene da una famiglia che ha fatto della montagna la sua vita, oltre che la sua passione. Hervé Barmasse avrebbe mai potuto fare altro? Ci ha mai pensato?
Sono nato come sciatore, ma dopo un grave incidente, sono passato alla montagna. Però mi affascina molto anche il mondo della barca a vela e del motociclismo. Per la moto forse sono troppo vecchio, per la vela invece no, ho ancora qualche speranza!
Siamo alla vigilia della Milano Montagna Week, cosa vorrebbe che fosse trasmesso di questo mondo a chi ne prenderà parte?
Secondo me bisogna far capire che l’alpinista migliore non è quello che fa le grandi imprese, ma chiunque rispetti la montagna. Fossi il responsabile di una manifestazione come quella di Milano, coinvolgerei solo chi condivide questo “credo”. La montagna non è solo alpinismo. Si deve dar spazio alla cultura della montagna.
Quali sono i suoi prossimi progetti?
Andrò in Nepal in ottobre, con David Gottler: il progetto è quello di concatenare tre cime di 7mila 200 metri in questo stile pulito. Saliremmo quindi la prima e, senza scendere al campo base, continueremmo per salirne altre due. È un progetto di preparazione a un altro che intraprenderemo invece in primavera per aprire una nuova via su un 8mila. Tutto in stile pulito o stile alpino che significa: partire con 50 metri di corda, avendo con noi tutto quello che possiamo portar su e che poi di conseguenza porteremo giù. Si chiama stile pulito a differenza invece dello stile himalayano che si adotta sulle vie normali degli 8mila per allestire il quale occorrono 3 o 4 settimane, che usano sia le spedizioni commerciali che alcuni alpinisti che si definiscono atleti o professionisti, ma quando sali in vetta poi viene lasciato tutto sulla montagna.
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Ultima domanda: cosa le ha dato e tolto la montagna?
Io sono un po’ egoista, e sono così perché sono un alpinista, ed è una mancanza, sicuramente. Ma quando devi fare delle scelte, andare via per lunghi periodi, levi certamente spazio e tempo alle persone che ti stanno vicino. Gli sportivi in generale sono tutti un po’ egoisti. Devi essere così ma sai che è una cosa negativa. La montagna però è anche quella che mi ha dato il buon 80 per cento di quello che sono, per chi mi vuole bene è molto, per chi mi vuole male…non so.
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