Come costruire un nuovo multilateralismo climatico? Secondo Mark Watts, alla guida di C40, la risposta è nelle città e nel loro modo di far rete.
Tutte le strade della “nuova Via della seta”. Dalla Cina all’Artico, passando per l’Italia
Per ferro e per mare, la Cina vuole consolidare la sua egemonia nel trasporto commerciale mondiale. Anche sfruttando il riscaldamento globale e bussando alla porta dell’Europa: l’Italia.
L’Artico potrebbe trasformarsi nel nuovo Mediterraneo. La superficie ghiacciata del mar Glaciale artico, infatti, è diventata, a causa dei cambiamenti climatici, una rotta che anno dopo anno permette il passaggio di carichi commerciali sempre più consistenti. Si stima che dal 2010 al 2017 le merci trasportate attraverso questa rotta siano passate da 100mila a oltre il milione di tonnellate. Da qui transitano i mercantili per gli scambi tra Cina, Europa e America settentrionale e il presidente cinese Xi Jinping ha già da tempo intravisto in queste acque una “nuova Via della seta”.
La Belt and road initiative e il coinvolgimento italiano
Circa ottomila chilometri di vie marittime, fluviali e terrestri congiungevano l’Impero Romano all’Estremo Oriente in quella che, storicamente, è nota come Via della seta. Oggi il governo di Pechino vuole rinnovare e consolidare questa antica rete di comunicazione e dal 2013 è al lavoro sulla Belt and road initiative che ha come obiettivo la costruzione di future reti commerciali sia via rotaia che via mare, in modo da velocizzare e risparmiare sui trasporti commerciali. Gli investimenti cinesi si aggirano intorno ai 500 miliardi di euro distribuiti tra la realizzazione e il potenziamento di infrastrutture nei Paesi toccati da queste “nuove vie della seta“.
Si stanno dunque disegnando le nuove direttrici di questo investimento che punta a sviluppare rapporti commerciali con il Medio Oriente e i paesi del bacino del Mediterraneo, attraverso il canale di Suez e disegnando nuove rotte settentrionali per raggiungere più facilmente l’Europa del nord e gli Stati Uniti. In tutto questo, la Cina è decisa a stringere collaborazioni strategiche e, in questo senso, un accordo con l’Italia potrebbe essere siglato a breve.
Un primo passo era stato compiuto nel 2018 con la costituzione della Task force China: in questa partnership volta a rafforzare le relazioni economiche con la Cina è stato ufficializzato l’interesse del governo italiano alla Belt and road initiative, ma si attende la visita ufficiale a Roma del presidente Xi Jinping attesa per il 22 e 23 marzo quando è prevista la firma del memorandum in cui l’Italia dovrebbe confermare la propria apertura verso il colosso asiatico. Sul piatto potrebbero entrare le infrastrutture portuali italiane – in particolare il porto di Trieste –, insieme alla riqualificazione dei porti di Taranto e di Gioia Tauro.
Le prime dichiarazioni del sottosegretario al ministero per lo Sviluppo economico Michele Geraci sulla imminente intesa hanno però suscitato un certo scetticismo da parte delle istituzioni dell’Unione europea e una più aperta insofferenza degli Stati Uniti.
In particolare, è il portavoce del Consiglio di sicurezza americano Garrett Marquis a esprimere perplessità su quelli che potranno essere gli effettivi benefici per l’economia italiana, gettando dubbi sulla trasparenza di questi accordi bilaterali rispetto agli standard internazionali. Emerge così, dall’altra parte dell’oceano Atlantico, la preoccupazione della tenuta della tradizionale alleanza tra Stati Uniti e Italia, che con questo accordo acconsentirebbe a una forma di globalizzazione a trazione cinese.
La Polar silk road
Xi Jinping, intanto, lavora su più fronti e con la sua Belt and road initiative non nasconde le intenzioni della Cina di mettere mani e piedi sull’Artico. Come? Progettando e stringendo patti con altri Stati del Consiglio artico per la realizzazione di infrastrutture in cambio di accesso alle risorse naturali. L’intesa con la Finlandia è tra le più promettenti: nelle scorse settimane, infatti, è stata ribadita la volontà dei due presidenti di valorizzare al meglio la China railway express e altre strutture per incrementare il commercio bilaterale e “costruire insieme la Polar silk road”.
L’ipotesi dello sfruttamento di una nuova rotta transpolare è stata ufficializzata a inizio 2018 con l’emanazione del primo Libro bianco sull’Artico da parte del governo cinese per un piano infrastrutturale di circa 1.000 miliardi di dollari di collegamenti via terra e via mare tra Cina ed Europa. Perché questo progetto sia attuabile, però, occorre (sic!) che il Pianeta si scaldi ancora.
Xi Jinping suggested China and Finland make the best use of the China Railway Express to boost two-way trade, discuss opportunities for co-op on the Arctic shipping routes, jointly build the Polar Silk Road https://t.co/hQafbrcBV6 pic.twitter.com/mqevo3NMP2
— China Xinhua News (@XHNews) 15 gennaio 2019
L’Artico si scalda più del resto del mondo
“Tutti i modelli di previsione disponibili sul riscaldamento globale – spiega Carlo Barbante, paleoclimatologo dell’università Ca’ Foscari di Venezia – osservano una riduzione dei ghiacci nei prossimi anni. Già nel 2040 la zona marittima sarà libera e questa rapidità è dovuta al fenomeno dell’amplificazione artica: un grado di aumento della temperatura media globale nell’ultimo secolo corrisponde a un aumento della temperatura artica di circa tre gradi. Qui avvengono processi legati a fattori di retroazione che tendono ad amplificare un evento importante: quando si contrae il ghiaccio marino a causa dell’aumento della temperatura, si riduce la superficie ‘bianca’ in grado di riflettere la radiazione solare lasciando così libere zone di mare che assorbono più calore.
Oltre ad avere oceani più caldi, con l’arretramento dei ghiacci si scioglie lo strato di permafrost che a sua volta rilascia gas serra. Qui, questi processi hanno effetti rapidi e devastanti: fiumi e laghi ormai fanno parte del panorama della Groenlandia nei mesi estivi, sostituendosi ai ghiacci”.
La rotta polare, futuribile secondo le previsioni intorno al 2040, diverrebbe così la terza via marittima per la Cina (oltre alle rotte per il canale di Panama e il canale di Suez) che detiene oggi il 90 per cento del trasporto marittimo mondiale e costituirebbe un risparmio notevole in termini di tempi di navigazione e costi di trasporto. Ma non solo, nel Libro bianco non si nasconde l’intenzione di accedere alle risorse naturali artiche, come gas, minerali rari e pesca.
La “polar rush”, una nuova corsa all’oro
Nella regione artica si trova oggi il 25 per cento del totale degli idrocarburi presenti sul Pianeta: un valore economico di 17 trilioni di dollari, pari all’economia americana secondo le stime del collettivo Arctic times project. La Groenlandia, in particolare, si appoggia su una riserva di uranio, minerali preziosi e petrolio: non a caso proprio a sud del paese la Cina sta investendo nella più grande miniera di uranio a cielo aperto, fondamentale per l’industria tecnologica cinese. E dove presto si produrrà ulteriore inquinamento.
Anche la Norvegia partecipa alla corsa e si appresta a diventare un centro nevralgico portale e aeroportuale per queste nuove rotte. Ancora, la “patria del merluzzo” si apre a una nuova prospettiva commerciale: con il riscaldamento delle acque nuovi pesci si stanno spostando alla ricerca dei climi ideali popolando i mari nordici di nuove specie che presto creeranno ricchezza per il mercato ittico della regione.
La Russia non è però pronta a perdere lo scettro di potenza artica: il 60 per cento del pil russo deriva dall’Artico (a partire dallo sfruttamento del gas) e nelle zone costiere sono stati realizzati 12 porti in 10 anni. Ai confini occidentali del mare di Barents si sta consumando una silenziosa nuova guerra fredda tra Nato e Russia: a ridosso del confine norvegese la Russia ha impiantato circa 1.800 testate nucleari e la Nato nel mare di Barents è presente con una nave spia a monitorare 24 ore su 24 quanto accade in territorio russo.
Il progetto Ice memory
Ma se la fusione dei ghiacci sembra un processo inarrestabile, c’è chi sta correndo ai ripari preservando quello che a tutti gli effetti è un patrimonio dell’umanità. C’è anche l’Unesco, infatti, ad appoggiare il progetto Ice memory, una vera e propria “biblioteca dei ghiacci”. Italia e Francia sono cofondatori di una collaborazione internazionale nella realizzazione di un archivio dei carotaggi prelevati da diversi ghiacciai che saranno conservati in Antartide, terra di pace e ricerca.
“Per affrontare il futuro è importante conoscere il passato. In Antartide, ad esempio, con questa tecnica si può risalire a studiare il clima di 800mila anni fa – spiega Barbante, tra i fondatori del progetto Ice memory –. Grazie a questo materiale è possibile conoscere le oscillazioni dei cicli glaciali e la concentrazione nel tempo dell’anidride carbonica nell’aria. Questi ‘archivi’, soprattutto quelli alle basse e medie latitudini, sono però destinati a scomparire: nei prossimi 50 anni molto probabilmente i ghiacciai delle Alpi a 3.800 metri non ci saranno più, mentre a maggiori altezze l’acqua superficiale in via di scioglimento potrebbe presto percolare in profondità e ‘inquinare’ gli strati più antichi.
Alpi, Tibet, Himalaya, Kilimangiaro, zone polari: da tutto il mondo potrebbero provenire i carotaggi che andranno a comporre questo laboratorio antartico che servirà a future generazioni di scienziati a ricostruire e ricavare informazioni ancora più utili nella lotta ai cambiamenti climatici”. In un archivio, si spera, troveremo i giusti indizi per le soluzioni che ci salveranno.
Siamo anche su WhatsApp. Segui il canale ufficiale LifeGate per restare aggiornata, aggiornato sulle ultime notizie e sulle nostre attività.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Pubblicate nella notte le nuove bozze di lavoro alla Cop29 di Baku, compresa quella sulla finanza climatica. Strada ancora in salita.
Si parla tanto di finanza climatica, di numeri, di cifre. Ma ogni dato ha un significato preciso, che non bisogna dimenticare in queste ore di negoziati cruciali alla Cop29 di Baku.
La nuova edizione del Climate change performance index constata pochi passi avanti, da troppi paesi, per abbandonare le fossili. Italia 43esima.
Uno studio della rete di esperti MedECC e dell’Unione per il Mediterraneo mostra quanto il bacino sia vulnerabile di fronte al riscaldamento globale.
Basta con i “teatrini”. Qua si fa l’azione per il clima, o si muore. Dalla Cop29 arriva un chiaro messaggio a mettere da parte le strategie e gli individualismi.
Per mitigare i cambiamenti climatici e adattarsi ai loro impatti servono fondi. Alla Cop29 i Paesi sono molto distanti su quanto e chi debba pagare.
Il governo del Regno Unito ha scelto la Cop29 di Baku per annunciare il suo prossimo piano di riduzione delle emissioni di gas serra.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, intervenendo alla Cop29 a Baku, ha ribadito il proprio approccio in materia di lotta ai cambiamenti climatici.