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Oltre alla crisi climatica, il Burkina Faso si batte contro il terrorismo per la propria integrità
Già dilaniato dalla desertificazione, il Burkina Faso subisce anche la presenza di gruppi terroristici, i cui attacchi aumentano i conflitti tra comunità e spingono le persone a fuggire. La seconda parte del nostro reportage su un popolo che lotta per la propria terra.
in collaborazione con Davide Lemmi
Ci vogliono diverse ore di viaggio per raggiungere il campo profughi di Foubé nella provincia di Sanmatenga, centro-nord del Burkina Faso. La pista di terra e sassi su cui corrono i pickup attraversa un paesaggio desolato e allo stesso tempo affascinante. Una distesa pianeggiante a tratti sabbiosa con colori che variano dal rosso all’ocra è picchiettata qua e là da alberi dai rami nudi e secchi. L’aria infuocata del Sahel rende tutto ovattato e le casette bianche fornite dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) somigliano più alla sagoma di un miraggio quando d’improvviso appaiono all’orizzonte.
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La scorta della gendarmerie scende rapidamente dai veicoli per disporsi a cerchio attorno al gruppo di rifugi sperso nel nulla. Questo territorio non è sicuro. Recentemente, all’interno della cosiddetta zona rossa, sono stati registrati numerosi attacchi terroristici e scontri inter-etnici. Un’escalation che dal 2015 ha causato più di 585 vittime e la fuga di ormai quasi 500mila persone, specie negli ultimi tre mesi.
La presenza di gruppi terroristici nel nord del Burkina Faso
Questa situazione di insicurezza, scontro e diffidenza sarebbe stata impensabile fino cinque anni fa. Il Burkina Faso, una nazione della zona sud-occidentale del Sahara e tra le più povere al mondo, era infatti considerato un Paese stabile, nonostante i 26 gruppi etnici e le 65 lingue locali. Un’eccezione in una regione gravemente afflitta da fenomeni terroristici.
Ma qualcosa in quella convivenza etnico-religiosa, costruita in decenni di dialogo, è stato intaccato. Nelle regioni settentrionali hanno infatti iniziato ad agire gruppi estremisti islamici armati legati al sedicente Stato Islamico nel grande Sahara (Isgs) e al cartello Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim). Uno su tutti il gruppo jihadista Ansar ul Islam (protettori dell’islam), fondato dal defunto imam Ibrahim Malam Dicko e ora in mano al fratello Jafar a cui vengono attribuite la maggior parte delle azioni criminali.
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I primi attacchi hanno colpito la capitale Ouagadougou all’hotel Splendid e al ristorante Cappuccino nel gennaio del 2016, mostrando l’evidenza della minaccia che il governo aveva sottovalutato. L’intervento è arrivato in ritardo e con forze di sicurezza inadeguate e impreparate a combattere un nemico che compie raid improvvisi (più di 400 negli ultimi quattro anni) diretti a postazioni militari, villaggi e luoghi di culto, prendendo di mira occidentali e leader politico-religiosi.
Attacchi sempre più frequenti
Oggi nell’impotenza delle autorità e nel disinteresse del mondo questi attacchi sono sempre più frequenti e l’ultimo mese e mezzo è stato un bagno di sangue. A metà ottobre a Salmossi, nella provincia settentrionale di Oudalan, una moschea è stata attaccata da uomini armati che hanno ucciso 16 persone sorprendendole mentre erano in preghiera. A inizio ottobre 20 persone sono state uccise in un attacco ad un sito minerario nella provincia di Soum e a settembre ci sono state decine di vittime in diversi raid nella stessa zona, e poi a Barsalogho e nella provincia di Bam. In tutto questo anche le forze militari appaiono vulnerabili oltre che impotenti. Il 19 agosto l’esercito ha subìto un attacco alla base militare di Koutougou, di nuovo nel Soum, con la morte di 24 soldati e decine di feriti. Il più grave da quando è iniziato il conflitto con i terroristi.
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In un Paese dove i musulmani rappresentano il 65 per cento della popolazione mentre i cristiani sono il 35 per cento, e da sempre contraddistinto per la tolleranza e il dialogo inter-religioso in comunità spesso miste, la strategia dei gruppi terroristi ha anche cercato di spostare il conflitto sul piano religioso, prendendo di mira imam moderati e le comunità cristiane del nord tra maggio e giugno. Il presidente della comunità islamica burkinabé, l’imam El Hadj Abdoul Rasmané Sana, ha però le idee chiare sul tema: “Questi attacchi non possono tagliare relazioni pacifiche che esistono fra noi da anni. Il terrorismo colpisce ovunque indiscriminatamente sfruttando la frustrazione e la rabbia dei nostri giovani. Ci sono cause alla radice di tutto, legate alla povertà e alla scomparsa delle risorse ed è su questo che bisogna cominciare un dialogo tra comunità”.
Il terrorismo colpisce ovunque indiscriminatamente sfruttando la frustrazione e la rabbia dei nostri giovani.El Hadj Abdoul Rasmané Sana, presidente della comunità islamica burkinabé
In quelle zone più emarginate politicamente ed economicamente (le regioni del Sahel, nord, centro-nord) i jihadisti hanno fatto proselitismo, seminando odio e sfruttando recriminazioni per impegni non mantenuti e rancori repressi verso le autorità. Una rabbia che cova contro lo Stato, da sempre assente, contro il sistema politico, reo di lasciare i giovani senza istruzione né lavoro, e fra gli stessi gruppi etnici, divisi dalla necessità di cercare risorse sempre più scarse a causa della desertificazione.
Migliaia di persone nel campo di Foubé
Questa situazione è esemplificata dal campo di Foubé, che ospita qualche migliaio di persone, per lo più donne, vecchi e bambini, costretti a vivere in una zona semidesertica con pochissimi aiuti. Sono tutti peul, un gruppo etnico di pastori seminomadi a maggioranza musulmana diffuso nell’Africa occidentale e sahelo-sahariana che in Burkina Faso rappresenta il 9 per cento della popolazione. Dalle zone più settentrionali dove vivevano dediti alla transumanza del bestiame, sono dovuti fuggire per mettersi in salvo dagli scontri e dalla minaccia jihadista.
Nel campo, intente a preparare un rifugio improvvisato, le donne hanno il volto adorno di gioielli colorati e cicatrici ornamentali fulani. Affermano di aver poca acqua e cibo, di non poter uscire perché nel mirino dei koglweogo che le accusano di essere complici dei terroristi. Un anziano seduto sotto un albero spiega: “Ci danno la caccia perché vogliono rubarci le mandrie e i pochi pascoli rimasti. Il terrorismo è una scusa per sterminarci e la polizia è coinvolta”. Accanto siedono dei giovani dagli sguardi persi nel vuoto, colmi della frustrazione di chi ha perso quel poco che aveva.
Ci danno la caccia perché vogliono rubarci le mandrie e i pochi pascoli rimasti. Il terrorismo è una scusa per sterminarci e la polizia è coinvolta.anziano koglweogo
Chi protegge il popolo dal terrorismo
I koglweogo sono dei gruppi civili di autodifesa che da diversi anni hanno iniziato a diffondersi nelle zone rurali più isolate del Burkina, affermando di voler proteggere il popolo burkinabé dalla minaccia jihadista. Queste brigate, composte in maggioranza da mossi, l’etnia più numerosa nel Paese e principalmente dedita all’agricoltura stanziale, sono state accusate di violazioni per i loro metodi brutali contro i peul.
Gli allevatori nomadi a maggioranza musulmani vivono principalmente nelle zone settentrionali. Nelle stesse aree dove si è insediato il terrorismo. Il messaggio integralista, antioccidentale ed antistatale dei gruppi jihadisti è stato una forte leva per diversi giovani senza alternative. Ed è questo il casus belli che ha scatenato la violenza, la rabbia e le rappresaglie degli altri gruppi etnici. Si ritiene infatti responsabile tutta la comunità peul della presenza estremista nell’area.
La jihad non è arrivata per caso in Burkina Faso
La jihad non è però arrivata per caso in Burkina Faso. Le frontiere permeabili con Paesi instabili come il Mali e il Niger, la posizione geografica sulle rotte di traffici illegali di droga, armi ed esseri umani da cui si finanziano i terroristi, nonché il riassetto del potere dopo la caduta dell’ex-dittatore Blaise Compaoré nel 2014, sono elementi importanti da considerare. A questo vanno aggiunte le norme restrittive di diritti e libertà individuali che incidono su fragili equilibri socio-economici e sulle condizioni di vita delle comunità locali e l’uso eccessivo della forza con conseguenti violazioni dei diritti umani sulla popolazione perpetrate dalle forze di sicurezza che vanno ad esacerbare il conflitto, come denunciato in marzo da Human rights watch.
Tuttavia è l’estrema povertà e la mancanza di sviluppo in zone dal forte aumento demografico ad aver creato l’humus nel quale l’estremismo ha attecchito. I gruppi terroristici entrano in gioco usando una strategia destabilizzante che fa leva sul disagio sociale e creano un conflitto a bassa intensità in cui alla fine sono sempre le popolazioni civili a pagare il prezzo più alto in un ciclo senza fine. Un tormento che, guarda caso, ha sempre all’origine la questione della terra e delle risorse intaccate irrimediabilmente dai cambiamenti climatici e dall’azione umana.
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