
Il ritratto di un bambino mutilato a causa dei bombardamenti israeliani a Gaza ha vinto il World press photo 2025, il concorso fotografico che da 70 anni documenta le complessità del presente.
Sottosopra. Ed è il modo migliore per descrivere Carnival! Nairobi, un progetto che vuole dare una nuova opportunità ai ragazzi di strada a Nairobi, in Kenya, rovesciando l’ordine delle cose.
La casa è fatiscente e il giardino è coperto di spazzatura che brucia. Attorno alti palazzi, di fronte a noi baracche, vicino a me un gruppo di trentacinque ragazzi e ragazze che vivono in strada. Sono andata a trovarli per coinvolgerli in un’idea pazza. Per costruire un nuovo percorso, insieme.
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Le ragazze sono quelle che mi colpiscono sempre più di tutti, perché sono giovani, perché hanno quasi sempre un bimbo in braccio. Tutti le trattano male, pretendono da loro favori, si rivolgono a loro senza rispetto. E loro rispondono.
“Le ragazze in strada hanno bisogno di diventar cattive, in questo modo sopravvivono” è uno dei grandi insegnamenti che ho ricevuto qui a Nairobi.
Così le ragazze rispondono alle spinte e agli sguardi minacciosi che le colpiscono in volto, ma il loro volto è fiero, lo sguardo viene restituito tutto, ed in questo modo affermano come possono la loro voglia di lottare.
Una ragazzina mi vede e mi riconosce subito. Anche io la vedo e la riconosco subito, lei mi corre incontro e ci abbracciamo. La conosco da circa due anni, quando abbiamo aperto il nuovo centro di prima accoglienza lei era parte del primo gruppo di bimbi e bimbe accolti, è rimasta con noi un paio di mesi, poi è fuggita per tornare alla sua vita di strada. Perché l’ha fatto? Non ne ho idea.
Ancora una volta da quando sono qui faccio un passo indietro e accetto di non capire, di non riuscire a spiegarmi una scelta del genere. Quando la incontro metto da parte il giudizio, quel “Perché non sei rimasta con noi?” che tante altre volte ha invaso i miei pensieri facendomi sbagliare. Oggi voglio solo sorriderle, abbracciarla ed essere solo contenta di rivederla. Come si fa con un amico che non vedi da tempo.
Il mio sguardo si sofferma su una bimba che un’altra ragazzina tiene in braccio. Ha sei mesi, il viso serio che si distende solo quando incrocia lo sguardo di qualcuno. Viene presa in braccio ora da uno, ora dall’altro, ed ecco che di fronte a lei anche il tipo con lo sguardo che sfida tutti diventa dolce e le mette addosso una copertina, facendola ridere. Che destino ha questa piccola bambina? Cosa ci fa in mezzo a queste persone? Quale futuro? Quali scelte nella vita?
Negli anni abbiamo sostenuto negli studi così tanti bambini conosciuti in queste strade di Nairobi. Così tanti bambini e così tante bambine sono venuti via dalla strada e hanno scelto di tornare a scuola e ricominciare a studiare.
Con i bambini è in qualche modo diventato perfino semplice: ormai li conosciamo, sappiamo cosa cercano, sappiamo come convincerli a restare con noi e a scegliere una strada diversa da quella dove vivono. Solo i casi più difficili scappano e ritornano ad un passato buio e senza speranza. Alcuni di quelli che sono scappati a volte cercano anche di tornare da noi, ci chiedono di riprovarci. E noi ci riproviamo, sperando che stavolta il bimbo sia abbastanza forte e deciso da non mollare. Ma a volte è una scelta troppo grande da prendere per un bambino.
E con i ragazzi più grandi? Con i ventenni, i trentenni che sembrano cinquantenni, cosa si fa con loro?
La mamma della bimba di sei mesi ci prende da parte e ci chiede di aiutarla a portare la figlia dalla nonna, al villaggio: “Qui la gente urla, lei non riesce nemmeno a dormire”.
Ha ragione questa giovane donna. La soluzione è lì, anche per me: la famiglia.
Con i bambini stiamo provando a far questo, cerchiamo il contatto con la loro famiglia di origine, siamo disposti a cercare un parente anche quando se ne sta in chissà quale area remota del Kenya, restituiamo le origini a questi bimbi che le hanno perdute – perché, ditemi voi, dove puoi arrivare se non sai nemmeno da dove sei partito.
Da lì ricominciamo: se si arriva alle famiglie si arriva in media a cinque bambini anziché uno, se sosteniamo la famiglia eviteremo in futuro di trovare in strada i fratelli più piccoli del bimbo che avevamo accolto nel nostro centro qualche anno prima, e pian piano spezzeremo la catena che porta ad avere i bambini in strada.
Ecco il sogno. Funziona?
Forse, perché le famiglie sono una scommessa: ogni famiglia è diversa e le sfide di ogni famiglia sono tante e difficili. Bisogna prima di tutto comprenderle, poi immaginare insieme le soluzioni, poi passare all’azione, poi sbagliare, riprovare, ricominciare daccapo e mai arrendersi. Così per anni.
Quando penso ai bimbi che abbiamo accolto nei nostri centri, penso che i centri non siano mai stati la soluzione, ma solo un’alternativa temporanea a ciò che invece dovrebbe essere assicurato sempre a tutti i bambini del mondo: l’affetto di un legame solido e duraturo come può essere quello di un genitore o di un familiare.
E questi giovani, che oggi ho incontrato, hanno un legame solido e duraturo a cui appoggiarsi?
Il loro pensiero batte nella mia testa ormai da molto tempo, vorrei pensassimo a delle alternative anche per loro, vorrei che arrivassero anche loro a credere che un altro mondo è possibile.
Ma mettiamoci nei loro panni… Non so se nei loro panni crederei a qualcosa di diverso da ciò che ho vissuto da così tanti anni in queste strade sporche e pericolose. Mentre accompagniamo la giovane mamma verso l’autobus che la porterà con sua figlia verso il villaggio da cui proviene, spero fortemente che sceglierà di restare anche lei. Spero che decida di non tornare più a una vita misera come quella della casa fatiscente col giardino di spazzatura, ma resti al villaggio con la sua famiglia.
Forse il villaggio sarebbe davvero la soluzione per lasciarsi indietro una città come Nairobi che ti toglie tutto e non ti promette nemmeno un’illusione.
Oggi sono stata a trovare questo gruppo di ragazzi e di ragazze perché stiamo sviluppando un’idea pazza, e vorremmo coinvolgere gruppi come quello di stamattina in un nuovo percorso da costruire insieme.
A noi della ong Amani, le pazze idee vengono soprattutto quando ci facciamo accompagnare da degli amici che si chiamano Cherimus.
Cherimus in sardo significa “vogliamo”, “desideriamo”, e forse sarà per questo che in loro compagnia ci facciamo trasportare dai sogni.
Stavolta il sogno (pazzo) è quello di dar vita al primo carnevale keniano. Carnival! Nairobi si chiama il progetto. E vogliamo realizzarlo accompagnati dai ragazzi che vivono in strada.
Perché con loro? Sarebbe sinceramente stato molto più semplice organizzare un bel carnevale in maschera con i bimbi che vivono nei nostri centri, coinvolgendo le scuole di quartiere, invitando la gente a una bella parata e divertirci tutti assieme.
Invece no, noi vogliamo quei ragazzi lì, non altri.
La parata devono condurla loro.
Vogliamo dar loro l’opportunità di rovesciare l’ordine delle cose, sciogliere le regole dettate da questa società che mette i ragazzi che ho incontrato oggi in un angolo e li chiama “animali”. Vogliamo dar vita al caos per sconvolgere un ordine sbagliato e ricostruirne uno nuovo. Rinnovarci tutti simbolicamente, per poi riprendere le fila delle nostre vite, ora nuove, e stare a vedere cosa succederà dopo.
Questo è ciò che c’è dietro al carnevale, e vorremmo che i ragazzi che vivono nelle strade di Nairobi inventassero un carnevale tutto keniano.
Per questo siamo andati a conoscerli questa mattina. Per questo sono arrivati ormai da qualche giorno gli artisti di Cherimus, e poiché questa pazza idea è nata ancora una volta assieme a Koinonia community, sono certa costruiremo qualcosa di meraviglioso.
Chissà, magari stare insieme, conoscerci indossando maschere che raccontino meglio chi siamo, ci aiuterà anche a capirci di più. E da lì potremo ripartire: inventarci nuove iniziative, affidarci a nuove idee (magari ancora più pazze), costruire insieme una strada diversa. Di cambiamento vero.
Ecco, questo è quello che insieme “cherimus”.
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