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La popolazione dimenticata del Myanmar, tra conflitti e paura della Covid-19
Chi sono i cristiani chin dell’ex Birmania. Testimonianze esclusive della Chin human rights organization che ne difende i diritti nel mondo.
“Il primo caso di Covid-19, che il governo birmano ha deciso di rendere noto, riguarda proprio un uomo di etnia chin che è rientrato dagli Stati Uniti e vive nella città settentrionale di Tedim. Per una coincidenza, due membri del nostro staff erano sul suo stesso volo”. A parlare è Salai Sang Hnin Lian, ex giornalista che ora dirige i programmi della Chro (Chin human rights organization). Dal 1995 questa ong protegge e promuove i diritti della popolazione chin e gode di uno status speciale che le consente di fornire consulenza al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (Ecosoc).
Lian ci scrive da Hakha, capitale del remoto stato Chin. Qui, unica regione dove i cristiani costituiscono la maggioranza della popolazione, insegna diritti umani in un’università fondata da un missionario battista agli inizi del Novecento. Lo studioso è anche senior advisor di The hills education, un’organizzazione che ha tra i fondatori una coppia italo-birmana e si occupa di istruzione universitaria e ricerca avanzata per i chin. Nonostante il Myanmar conti centinaia di etnie, il governo continua a promuovere il nazionalismo bamar (birmano) fondato sul credo religioso buddista. Le persecuzioni che hanno colpito i musulmani rohingya non sono lontane né nel tempo, né geograficamente. A sudest, il Chin confina con lo stato del Rakhine (ex Arakan) dal quale almeno 900mila persone sono state costrette a fuggire in Bangladesh fra il 2015 e il 2017. E proprio lì, intorno a quella frontiera porosa, e da quello stesso 2015 è riesploso un altro conflitto, a danno dei civili chin, ma anche dei rohingya rimasti. A scontrarsi, l’esercito birmano e l’Arakan army.
Chin e Rakhine, il conflitto non si ferma nonostante la Covid-19
Ci spiega il vicedirettore esecutivo della Chro, Salai Za Uk Ling: “L’esercito Arakan, è un gruppo armato etnico, fondato nel 2009 nel Rakhine. Il suo obiettivo è creare un territorio semi-autonomo o addirittura indipendente nel Myanmar occidentale. Il Tatmadaw, l’esercito governativo si oppone a questo”. Per ora, in questo angolo del mondo, è rimasto inascoltato l’appello del segretario generale dell’Onu, Antonio Gúterres, che ha chiesto un cessate il fuoco globale dopo l’arrivo della pandemia di Covid-19. “Noi chiediamo con forza che venga applicato. Tuttavia, le ostilità non stanno diminuendo”, aggiunge Lian. Il 7 aprile il Tatmadaw ha bombardato la città di Paletwa e due villaggi vicini, uccidendo sette civili, fra i quali due bambini, una madre e un neonato. Altre otto persone sono rimaste ferite e un egual numero di case completamente distrutto.
I bollettini della Chro sono tutti tragicamente simili. Nella stessa zona, il 2 aprile un contadino è saltato su una mina anti-uomo mentre rientrava dalla sua fattoria. Nella stessa settimana altre bombe sono state lanciate dai jet dell’aviazione militare birmana. Un bambino è morto e 17 individui hanno riportato ferite a Minbya. E il 30 marzo, sempre a causa del Tatmadaw, altri due civili avevano perso la vita. Come sostiene Guterres, se si continua a confliggere le tensioni aumenteranno con conseguenze catastrofiche per tutti. “A fine marzo – continua Lian – un camion di aiuti si stava dirigendo dalla città di Sami a quella di Paletwa, ma è stato intercettato dall’Arakan army. Hanno preso 20 sacchi di riso su 100. Ora il governo locale potrebbe inviare altri 600 sacchi, ma ha paura dei sequestri”.
Intanto, il lockdown è stato imposto a Tedim. Tutti i passeggeri del volo con il primo contagiato sono stati messi in quarantena. Medici da Hakha e dalla capitale birmana Nay Pyi Taw sono giunti al villaggio per monitorare la situazione. Nel momento in cui scriviamo, in Myanmar sarebbero stati registrati 38 casi positivi alla Covid-19 e tre decessi. Una funzionaria delle Nazioni Unite, proveniente dalla Svizzera, è stata la prima a guarire. Nel suo ultimo discorso alla nazione, il consigliere di stato (ruolo simile a quello di primo ministro) Aung San Suu Kyi ha detto che il governo non sta pianificando un lockdown totale, ma forse parziale. Ma con quali rischi per un paese ancora in pugno ai militari e con alcune aree controllate dai cosiddetti “signori della guerra e delle risorse”? Che cosa potrebbe accadere in una nazione grande il doppio dell’Italia, largamente povera, priva di infrastrutture, afflitta da traffici, abusi e conflitti armati?
Sfollati ancor più a rischio se il nuovo coronavirus dovesse diffondersi
Lian è preoccupato: “Se il virus si diffonderà nello stato Chin, per i suoi abitanti sarà molto difficile accedere alle cure. Il sintomo della polmonite acuta ucciderebbe molti anziani. Soprattutto nei villaggi ci sono solo piccole cliniche. Mancano i ventilatori per la terapia intensiva. Raggiungere le città più grandi sarebbe complicato”. Probabilmente, impossibile.
In questo bellissimo stato tropicale, incontaminato e montagnoso, non ci sono abbastanza strade e trasporti. Gli agglomerati urbani non hanno ospedali attrezzati per ricevere dei malati gravi.
Paletwa, sulle rive del fiume Kaladan, circondata da fitte foreste, è l’epicentro del nuovo conflitto. Invece, a Sittwe – nello stato Rakhine – sono ancora rinchiusi almeno 140mila rohingya. Che cosa accadrebbe se il nuovo coronavirus colpisse questi campi di prigionia e miseria? “A Paletwa il governo civile ha poca se non alcuna autorità”, continua Liam. “Sebbene il dipartimento amministrativo generale sia ufficialmente diretto dall’ufficio del Presidente, è costretto a causa del conflitto a limitare i movimenti, compromettendo il sostentamento quotidiano. Si tratta di un’amministrazione militare”. In un’economia di guerra, l’inflazione è alle stelle. Il prezzo del riso è triplicato. Quello degli altri beni di prima necessità è aumentato del 400 o 500 per cento. Se la pandemia giungesse in questa città, incontrerebbe una popolazione con un sistema immunitario già compromesso dal razionamento di cibo e dalla denutrizione. Sarebbe difficile sia effettuare delle diagnosi che garantire delle cure.
Inoltre, anche a Paletwa gli sfollati potrebbero diventare in breve tempo 2400, ai quali bisogna aggiungere quelli nei dintorni, come i 2mila di Kyauktaw e i 2.649 di Sami. In quest’ultima cittadina il governo sta costruendo delle capanne. Chiese e scuole stanno dando rifugio. Tuttavia, in situazioni come queste è impossibile mantenere l’igiene e le distanze di sicurezza. Insiste Lian: “A Paletwa non c’è neppure internet. La gente non può informarsi sul conflitto e sulla Covid-19. Alcuni gruppi di cittadini stanno attaccando dei manifesti nei vari dialetti chin…”. I medici birmani, inoltre, temono un rientro di lavoratori dalla Cina, dopo che il Myanmar avrà chiuso le frontiere con essa. Circa 500 uomini potrebbero rientrare proprio a Paletwa dallo Yunnan cinese, con una bassa probabilità che vengano sottoposti a test diagnostici o all’auto-isolamento.
In tutto, dopo cinque anni di guerra si contano 10mila tra sfollati e rifugiati degli stati Chin e Rakhine. Ottocento persone sono fuggite all’estero, soprattutto in Malesia, ingrandendo una diaspora iniziata più di trent’anni fa. Salai Za Uk Ling ci aiuta a ricostruirne le fasi: “Come i rakhine (o arakan), i chin rappresentano uno degli otto più grandi gruppi etnici dell’ex Birmania. Come gli altri, sono stati perseguitati e oppressi dalla giunta militare che si è imposta nel 1962 e che ha sempre rappresentato i bamar. Un elevato numero di chin è fuggito dopo le rivolte per la democrazia del 1988, fermate con un nuovo golpe dell’esercito. Attualmente più di 200mila chin vivono in India, Malesia, Australia, Nord America ed Europa. In patria ne sono rimasti mezzo milione”.
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