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Nonostante la legge sul consumo di suolo, l’Italia deve fare ancora molto per far fronte ai rischi idrogeologici. L’editoriale della presidente di Legambiente che presenta il rapporto Ecosistema Rischio 2016.
Un’Italia sempre più fragile segnata da un insostenibile e crescente consumo di suolo, resa sempre più vulnerabile dal riscaldamento globale e da una gestione del territorio, urbanizzato e non, che non ha mai messo la prevenzione del rischio idrogeologico al primo posto. È questa la foto scattata da Ecosistema Rischio 2016, il rapporto Legambiente sul rischio idrogeologico in Italia.
Le immagini dell’alluvione di Benevento dello scorso anno, in Campania, ma anche l’ondata di maltempo che lo scorso autunno ha colpito diverse città italiane come Olbia, Pisa, Cassino, solo per citarne alcune, sono difficili da dimenticare. Quelle immagini hanno dimostrato ancora una volta il grave problema del rischio idrogeologico legato ai cambiamenti climatici.
Solo nel 2015 frane alluvioni hanno infatti causato nel nostro Paese 18 vittime, un disperso e 25 feriti con 3.694 persone evacuate o rimaste senzatetto in 19 regioni, 56 province, 115 comuni e 133 località. Secondo l’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica (Irpi) del Cnr, nel periodo 2010-2014 le vittime sono state 145 con 44.528 persone evacuate o senzatetto, con eventi che si sono verificati in tutte le regioni italiane, nella quasi totalità delle province (97) e in 625 comuni per un totale di 880 località colpite.
Dati e fatti che indicano ancora una volta l’urgenza di avviare interventi mirati per la tutela e la messa in sicurezza dei territori e politiche di mitigazione del rischio che sappiano tutelare il suolo, i corsi d’acqua e ridurre i pericoli a cui sono esposti quotidianamente i cittadini.
In compenso in Parlamento abbiamo un ddl sul consumo di suolo che dopo quattro anni di discussione ha avuto il primo via libera dalla Camera e ora passa al Senato; mentre a livello territoriale si continua a “calpestare” il suolo costruendo in zone a rischio idrogeologico. In particolare, come è emerso dal dossier Legambiente in tutta Italia sono 7 milioni i cittadini che si trovano ogni giorno in zone esposte al pericolo di frane o alluvioni. In ben 1.074 comuni (il 77 per cento del totale) sono presenti abitazioni in aree a rischio. Nel 31 per cento sono presenti addirittura interi quartieri e nel 51 per cento dei casi sorgono impianti industriali. Nel 18 per cento dei Comuni intervistati, nelle aree golenali o a rischio frana sono presenti strutture sensibili come scuole o ospedali e nel 25 per cento strutture commerciali.
Ma l’urbanizzazione delle aree a rischio non è solo un fenomeno del passato: nel 10 per cento dei comuni intervistati sono stati realizzati edifici in aree a rischio anche nell’ultimo decennio: nell’88 per cento dei casi sono state urbanizzate aree a rischio di esondazione o a rischio di frana con la costruzione di abitazioni (in 128 comuni su 146); nel 14 per cento dei casi in tali aree sono sorti addirittura interi quartieri (in 20 comuni). Nel 38 per cento l’edificazione ha riguardato fabbricati industriali (55 comuni). Nel 12 per cento dei casi (17 comuni), invece, sono state costruite in aree a rischio idrogeologico strutture sensibili come scuole e ospedali, nel 18 per cento (26 comuni) strutture ricettive e nel 23 per cento (33 comuni) strutture commerciali.
In ritardo anche le attività finalizzate all’informazione dei cittadini sul rischio e i comportamenti da adottare in caso di emergenza: l’84 per cento dei Comuni ha un piano di emergenza che prende in considerazione il rischio idrogeologico ma solo il 46 per cento lo ha aggiornato e solo il 30 per cento dei Comuni intervistati ha svolto attività di informazione e di esercitazione rivolte ai cittadini.
La crisi urbana e i cambiamenti climatici ci obbligano a ripensare in modo diverso il territorio e le città, immaginando un futuro che guardi alla rigenerazione urbana, ad uno nuovo tipo di mobilità urbana, a scelte di vita sostenibili. Oggi più che mai le città rappresentano il cuore intorno al quale si intrecciano e dipanano le emergenze umane, ambientali, sociali e culturali del nostro tempo. È qui, infatti, che si produce la quota più rilevante di emissioni ed è qui che l’intensità e frequenza di fenomeni meteorologici estremi sta determinando danni crescenti, mettendo in pericolo vite umane e determinando danni a edifici e infrastrutture.
A Roma e Napoli sono oltre 100mila i cittadini che vivono o lavorano in zone a rischio, poco meno di 100.000 anche le persone in aree a rischio nella città di Genova. Inoltre, nonostante i rischi ormai evidenti, nelle città di Roma, Trento, Genova e Perugia anche nell’ultimo decennio sono state realizzate nuove edificazioni in aree a rischio.
È dunque ora di dire basta al consumo di suolo e lavorare per ridisegnare la “geografia urbana” del Paese, avviando un processo di rigenerazione urbana, programmando azioni che favoriscano l’adattamento ai cambiamenti climatici e diffondendo una cultura di convivenza con il rischio che punti alla crescita della consapevolezza presso i cittadini dei fenomeni e delle loro conseguenze.
La difesa del suolo e le politiche di prevenzione devono diventare un tema prioritario del Paese e dell’agenda politica. In particolare l’attività di prevenzione, per essere efficace, deve prevedere un approccio complessivo che sappia tener insieme le politiche urbanistiche, una diversa pianificazione dell’uso del suolo, una crescente attenzione alla conoscenza delle zone a rischio, la realizzazione di interventi pianificati su scala di bacino, l’organizzazione dei sistemi locali di protezione civile e la crescita di consapevolezza da parte dei cittadini.
E soprattutto per ottenere risultati realmente efficaci, oltre all’impegno da parte delle amministrazioni comunali su alcuni aspetti di stretta competenza, è necessario dar vita ad una filiera virtuosa a cui contribuiscano soggetti ed enti diversi, dallo stato centrale agli enti locali, alle autorità di Bacino, ciascuno con il proprio ruolo e le proprie prerogative.
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