Oltre 2.500 miliardi di euro: sono i soldi che le grandi banche hanno iniettato nel settore delle fonti fossili dalla firma dell’Accordo di Parigi al 2019.
Cosa sono i carbon credit
Immaginate una borsa dove una folla di broker si agita per vendere e comprare. Telefonate, strette di mano, grida. Ma c’è qualcosa di diverso. Gli agenti finanziari non si scambiano azioni, ma… alberi.
Si è tanto sentito parlare di carbon credit spesso associato ad altri termini come Protocollo di Kyoto, “emission trading” o “cap and trade”. Proviamo a spiegare in maniera semplice di cosa si tratta: è una forma di mercato, una “borsa” creata per fornire incentivi economici a chi vuole ridurre le proprie emissioni di gas ad effetto serra; borsa che però non utilizza come unità di misura una valuta come può essere il dollaro o l’euro per effettuare le transazioni, ma la CO2 espressa in tonnellate.
“Il concetto fondamentale è in realtà molto semplice: le emissioni di gas serra mettono a rischio l’equilibrio dell’ecosistema – spiega Simone Molteni, direttore scientifico LifeGate – e quindi bisogna trovare il modo di ridurle. Se si vuole che una qualsiasi cosa non venga sprecata, non c’è modo migliore che farla pagare. Questa semplice mossa instaura un circolo virtuoso perché chi non compie nessuno sforzo per combattere un problema dell’intera comunità viene penalizzato, mentre chi riesce a ridurre le proprie emissioni ha un riconoscimento”. Non solo economico.
Come funziona
Un’autorità nazionale o sovranazionale definisce un valore massimo, un volume definito (in inglese “cap”) di emissioni di CO2 nell’atmosfera a livello globale. Questo valore viene diviso e ripartito sotto forma di “diritti di emissione” tra stati e aziende. L’impegno, a questo punto, è quello di emettere CO2 in quantità pari o inferiore alle quote assegnate. In caso contrario il soggetto deve acquistare i crediti che gli mancano da altri soggetti che si sono comportati in maniera più virtuosa di quanto richiesto e che quindi possono vendere le proprie eccedenze.
I vantaggi
Gli stati e le aziende che sono in grado di ridurre le proprie emissioni ci guadagnano economicamente e in reputazione. Economicamente perché riescono a guadagnare dalla vendita di crediti, in reputazione perché mostrano all’intero sistema di essere in grado di rispettare le regole o di fare anche meglio. Andiamo ora a vedere quali sono i mercati in funzione e quali sono i mezzi a disposizione degli stati.
Gli strumenti
Il mercato più grande e strutturato è quello introdotto dal Protocollo di Kyoto nel 1997. Grazie a quelli che vengono chiamati “meccanismi di flessibilità”, i paesi industrializzati hanno a disposizione alcuni strumenti per raggiungere gli obiettivi di riduzione fissati dal Protocollo. La teoria di fondo è “pagare meno, pagare tutti” cioè agire in maniera coordinata per abbassare i costi di un progetto finalizzato a ridurre le emissioni di CO2.
I meccanismi di flessibilità sono tre, a seconda dello sviluppo economico del paese che ne vuole beneficiare: uno prevede la possibilità di creare progetti condivisi solo tra paesi industrializzati, il secondo tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, l’ultimo dà la possibilità agli stati di commercializzare i diritti di emissione acquisiti con i meccanismi precedenti.
Favorevoli e contrari
Proprio grazie a quest’ultimo meccanismo si sono sviluppati alcuni mercati delle emissioni a livello regionale. Il più grande e avanzato è lo European Union Emission trading scheme (Eu Ets), il mercato istituto dall’Unione europea per portare avanti la propria lotta contro i cambiamenti climatici. Gli Stati Uniti si sono sempre mostrati contrari all’introduzione di un mercato dei carbon credit per paura di veder ostacolata la propria crescita economica e ridotta la propria libertà di consumare.
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