Secondo un rapporto delle Nazioni Unite competizione e corsa alle performance colpiscono la salute mentale dei lavoratori, moltiplicano i casi di burn-out.
Austerità, le conseguenze di dieci anni di crisi in Europa e nel mondo
L’Europa ha risposto alla crisi del 2008 con la ricetta dell’austerità. Dopo un decennio, però, ancora si fatica a ritrovare crescita e benessere.
Dieci anni fa, alla fine del 2008, il mondo intero veniva scosso da un autentico terremoto. Negli Stati Uniti, una banca dalle dimensioni colossali, la Lehman Brothers, dichiarava il proprio default, cioè l’incapacità di ripagare i propri debiti. Un fallimento che trascinò con sé, in breve, un bel pezzo del sistema finanziario americano e mondiale.
Cause e conseguenze della crisi: dai mutui subprime ai piani di salvataggio
Le ramificazioni dell’istituto di credito erano talmente tante che ci sono voluti decine e decine di esperti, avvocati e liquidatori, nonché anni di lavoro, per ricostruire le maglie di tutti i business. Un lavoro che ha portato a scoprire anche le cause dello storico fallimento. Dai mutui subprime (prestiti concessi a cittadini che non avevano modo di ripagarli pur di aumentare i volumi di vendita) alle speculazioni sui mercati; dai prodotti finanziari “derivati” (quelli che derivano il loro valore da altri prodotti finanziari), alla mancanza di sufficienti regole e controlli.
Il vortice, nel giro di poco tempo, ha portato prima decine, poi centinaia, quindi migliaia di altre banche a fallire. Colossi come Merrill Lynch, Aig, Freddie Mac, Fannie Mae, Hbos, Royal Bank of Scotland, Bradford & Bingley, Fortis, Hypo e Alliance & Leicester furono oggetto di salvataggi d’emergenza. La crisi finanziaria contagiò quindi in breve altre nazioni: in particolare Regno Unito, Belgio, Islanda, Spagna, Russia e Ucraina.
Il contagio dell’economia reale e le scelte (diverse) di Stati Uniti e Unione europea
Nel frattempo, infatti, i mercati erano già entrati nel panico: le Borse crollavano, i fondi disinvestivano, i trader tremavano. Così, per cercare di tamponare la crisi e salvare il salvabile, numerosi stati del mondo occidentale si sono visti costretti a mettere mano al portafoglio. Banche centrali come la Federal Reserve americana, Bank of England inglese e la stessa Banca centrale europea, nel corso dei mesi e degli anni successivi decisero di iniettare gigantesche quantità di liquidità nei sistemi economici (il cosiddetto quantitative easing). Mentre assieme ai governi sostenevano (in alcuni casi nazionalizzando) banche, fondi e compagnie d’assicurazione al fine di evitarne il default.
Si stima che siano state spese decine di migliaia di miliardi, sommando tutti gli aiuti concessi nel mondo al settore della finanza, per evitare il tracollo del sistema. Una politica in qualche modo obbligata, che ha rappresentato però anche una delle catene di trasmissione tra la finanza e l’economia reale.
Le critiche degli economisti keynesiani alla ricetta rigorista
Gli stati si sono ritrovati infatti a far fronte, al contempo, agli esborsi necessari per sostenere il mondo finanziario e ad un sistema economico paralizzato. Le aziende improvvisamente non investivano, i cittadini non consumavano, la disoccupazione aumentava, le entrate fiscali diminuivano. Cosa fare dunque di fronte a tutto ciò? Sono due le strategie di politica economica (gli economisti perdoneranno la semplificazione) che furono ipotizzate. Da un lato quella di stampo liberista, basata sul rigore di bilancio e sulla fiducia nella capacità dei mercati di autoregolarsi e “risolvere” il problema: la cosiddetta austerità. Dall’altro, quella di matrice keynesiana, che proponeva invece investimenti pubblici per sostenere la domanda e uscire dalla crisi, assieme a riforme strutturali finalizzate ad eliminare le cause (a partire dalle speculazioni sfrenate) della crisi.
L’Europa ha scelto con forza la prima opzione. Di fronte alle frenate delle produzioni industriali, al crollo dei Prodotti interni lordi (Pil) e all’esplosione dei rapporti tra debito e Pil, a tutte le nazioni è stata imposta la stessa ricetta: tirare la cinghia, fare sacrifici, tagliare le spese. Dalla sanità alla scuola, dalla cultura alle opere pubbliche, la scure non ha risparmiato nulla. Provocando, in un caso come quello della Grecia, un autentico massacro sociale.
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Il mancato miglioramento dei conti pubblici
Eppure, indicatori economici come il rapporto tra deficit e Pil – considerati dalla maggior parte dei governi la cartina di tornasole per giudicare l’efficacia delle loro politiche – non sono migliorati. Al contrario la crisi delle finanze pubbliche si è via via aggravata. Il motivo? Semplice e matematico, secondo i detrattori delle scelte europee: se di rapporto si tratta, vuol dire che parliamo di una frazione. Deficit (o debito) al numeratore, Pil al denominatore. Ne consegue che se si adottano politiche che abbattono il numeratore, ma che fanno contrarre anche il denominatore, il rapporto, nella migliore delle ipotesi, non cambia.
Per fare un esempio concreto, il rapporto tra debito pubblico e Pil in Italia era pari al 99,7 per cento nel 2007 (anno prima della crisi). È quindi cresciuto a 112 nel 2009, a 123 nel 2012, fino a toccare quota 132 nel 2016. Come mai, nonostante anni di rigore e risparmi, i dati sono peggiorati in questo modo? Secondo gli economisti keynesiani ad incidere è stato quello che in gergo si chiama “moltiplicatore”.
Esso fa sì che per ogni euro di spesa tagliato il Pil non scende della stessa cifra, ma di qualcosa in più: 1,2 o 1,5 euro, a seconda delle stime. Ciò perché tagliando i fondi ad un settore si impone una sorta di effetto-domino anche alle aziende fornitrici, all’indotto, al resto del tessuto produttivo. Le altre imprese, così, a loro volta si vedono spesso costrette a tagliare i costi, magari licenziando il personale. Quest’ultimo si ritroverà così senza più un reddito e rinuncerà ad accendere un mutuo per comprare una casa, ad acquistare una macchina o ad andare in vacanza. In una parola: la spirale della recessione.
Questo “effetto palla di neve”, teoricamente, potrebbe essere evitato sostenendo l’economia, ad esempio agendo con decisione sul quantitative easing, mantenendo la spesa pubblica per non far crollare la domanda e limitando così al contempo l’impatto sociale. In altre parole, l’idea è di premere sull’acceleratore quando la strada si fa in salita per evitare che la corsa si arresti.
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La troika e i piani di austerità in cambio degli aiuti finanziari
Certo, una scelta del genere avrebbe comportato, nell’immediato, un ulteriore sforzo economico da parte degli stati. Ma esso, sempre secondo i fautori di una politica alternativa, sarebbe stato recuperato negli anni successivi grazie all’economia viva, alla tenuta di redditi e ricavi, e dunque al maggiore flusso di tasse e imposte pagate su di essi.
Resta il fatto che la ricetta keynesiana in Europa non è stata applicata. Al contrario, la cosiddetta troika (composta da Commissione europea, Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) ha accettato di aiutare i paesi in difficoltà a condizione che essi approvassero piani draconiani di austerità. I tre istituti erano convinti che ciò avrebbe consentito di tranquillizzare i mercati (che in molti casi speculavano sulle condizioni drammatiche del debito di alcune nazioni). In pratica, la ricetta è stata imposta a tutti, soprattutto alle economie meno floride. Aggravando e prolungando, secondo gli economisti anti-austerità, la crisi.
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Il caso della Grecia e le scuse del Fondo monetario internazionale
Basti pensare che secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale sulla Grecia, la politica rigorista avrebbe dovuto permettere non solo di evitare un’esplosione del debito, ma anche di mantenere negli anni post-crisi tassi di disoccupazione “accettabili”. Dal 2010 al 2013 la quota di senza lavoro avrebbe dovuto essere limitata, secondo le previsioni ufficiali del Fmi, rispettivamente, all’11,8 per cento, 14,6 per cento, 14,8 per cento e 14,3 per cento. Stime drammaticamente lontane dai dati reali registrati in quegli anni: 12,6 per cento, 17,7 per cento, 24,3 per cento e 27,3 per cento. Non a caso, lo stesso Fmi è stato costretto in seguito a scusarsi e ad ammettere le proprie colpe.
Nella nazione europea il numero di occupati è sceso sotto al livello del 1985. Al contempo, uno studio tedesco dell’Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung apparso nel 2015 ha spiegato che a causa delle politiche rigoriste, le tasse sui poveri sono cresciute del 337 per cento mentre quelle sui ricchi solamente del 9 per cento. I meno abbienti hanno perso così l’86 per cento del loro reddito, mentre i più agiati solo tra il 17 ed il 20.
Il governo di sinistra radicale guidato da Alexis Tsipras, negli anni successivi, ha cercato di invertire la rotta. Ma ancora oggi la Grecia è lontanissima dall’aver superato la crisi. E perfino la ben più ricca Italia, secondo l’economista Mario Pianta, non ne è ancora uscita.
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