Drogata e stuprata per anni, Gisèle Pelicot ha trasformato il processo sulle violenze che ha subìto in un j’accuse “a una società machista e patriarcale che banalizza lo stupro”.
Ebola esiste. Il racconto di una giornata in Congo, nel cuore dell’epidemia
Un reportage da Beni, una città del Congo sconvolta da violenze e da ebola. Le foto di Marco Gualazzini mostrano una situazione straziante che minaccia soprattutto i più piccoli.
”Ebola esiste, non stancatevi di lavarvi le mani e di proteggervi. Ebola esiste, non stancatevi di lavarvi le mani e di proteggervi”. Un altoparlante continua a lanciare in modo spettrale e ossessivo messaggi che invitano ad adottare misure preventive e mette in allerta sul rischio di contagio. Tutt’intorno militari, forze di polizia e personale sanitario obbligano decine di persone a farsi misurare la febbre e a lavarsi le mani con una soluzione di acqua e cloro. Siamo al checkpoint allestito all’ingresso della città di Beni, l’epicentro dell’epidemia di ebola che dall’agosto 2018 sta travolgendo le regioni nordorientali della Repubblica Democratica del Congo e che ha provocato oltre 2.000 morti e più di 3.000 contagi. È questo il punto di accesso al focolaio dell’infezione e solo dopo essere stati sottoposti ai controlli medici e aver seguito tutte le misure precauzionali obbligatorie si può entrare nella città assediata dal morbo più letale al mondo.
Benvenuti a Beni, epicentro di ebola
Una volta che la sbarra metallica si solleva e si “entra” nel cuore di ebola, immediati si materializzano l’incubo e la psicosi per un nemico invisibile che ogni giorno causa malati e morti. La strada che conduce verso il centro di Beni è punteggiata da cartelli che spiegano come si trasmette il virus e dopo pochi minuti ci si imbatte in un corteo funebre: un carro, un tempo utilizzato per il trasporto del carbone, ora porta una bara verso uno dei tanti cimiteri cittadini nati in modo spontaneo alla periferia della città. La gente assiste impietrita ai bordi delle strade con sguardi colmi di fatalismo e paura perché il virus è un male atavico di fronte al quale tutti si sentono esposti, vulnerabili e indifesi.
”In un giorno possiamo arrivare a fare dalle 15 alle 20 sepolture. Come riceviamo una chiamata che ci informa di un decesso dovuto alla malattia allertiamo le squadre di pronto intervento che si recano a prelevare il corpo e lo trasportano d’urgenza all’obitorio per poi procedere con l’inumazione”. A spiegare com’è la quotidianità nelle terre colpite dal virus ebola è Jeanpaul Kapitula, capo della protezione civile di Beni. L’uomo è seduto in un piccolo ufficio dove i telefoni squillano ininterrottamente e su un lavagna, con agghiacciante solerzia burocratica, vengono registrati i nomi delle persone decedute: Michael Manuku, Ntasha Masika, Irene Kavira, Kasereka Kihuka. Accanto le rispettive età: 4 anni, 11 anni, 75 anni, 3 anni.
Come colpisce ebola, tra verità e falsi miti
Ebola si trasmette attraverso il contatto con qualsiasi fluido biologico di una persona infetta, una volta manifesta, dopo il periodo di incubazione che varia dai 2 ai 21 giorni, causa prima di tutto febbre e nausea, progredendo provoca diarrea e vomito e poi emorragie interne, collasso di organi, apparati e quindi, la morte.
Uno studio condotto da Nature Communiations ha inoltre dimostrato come le epidemie di ebola rischino di aumentare in modo considerevole, a causa dei cambiamenti climatici, in un futuro non troppo remoto. Gli studiosi della testata scientifica nel loro report sostengono infatti che a causa di conflitti e del riscaldamento globale le aree interessate da possibili nuovi focolai del virus potrebbero aumentare, nel peggiore dei casi, di 3,8 milioni di chilometri quadrati entro il 2070. Alla base di questa tesi c’è un attenta analisi che ha portato i ricercatori ad osservare che le specie animali, vettori della malattia, nello specifico i pipistrelli della frutta, tenderanno ad avvicinarsi con sempre maggior frequenza agli insediamenti umani per cercare del cibo aumentando così in modo esponenziale i rischi di trasmissione e contagio.
Oggi si sono diffuse anche altre malattie: il complottismo e la dietrologia ed è sempre il capo della protezione civile a spiegare che cosa stia avvenendo tra la popolazione. ”Credenze popolari, superstizioni, strumentalizzazioni politiche ed esasperazione sociale, stanno spingendo sempre più persone a convincersi che il morbo non esista e che sia solo una strategia di potenze occulte per sterminare la popolazione congolese. Le comunità hanno iniziato a dimostrare ostilità verso le organizzazioni che operano per arrestare l’epidemia, alcuni medici sono stati assassinati, diversi ambulatori sono stati dati alle fiamme e la negazione del morbo induce le persone a non adottare nessuna misura precauzionale, con l’ovvia conseguenza che tutto questo impedisce che la catena di contagio possa aver fine”.
Una chiamata interrompe la spiegazione del capo della protezione civile, nel quartiere di Paida, alla periferia nord della città, è appena avvenuto un decesso a causa di Ebola. Il personale medico e gli operatori sanitari si preparano, caricano sui pick-up la bara e i sacchi di plastica con cui prelevare il corpo e scortati da un convoglio di militari si dirigono nella zona rossa.
Kambale Mandefu, un ragazzo come tanti
Su una collina si trova la piccola casa dove viveva Kambale Mandefu, un ragazzo di 21 anni, malato solo da pochi giorni. Mentre i soldati presidiano la zona e i medici procedono con il prelevamento del defunto e la sterilizzazione dell’abitazione, la popolazione radunatasi tutt’intorno osserva la delicata operazione e alcune donne sfogano la propria disperazione con urla e pianti, gli uomini invece contemplano in assoluto silenzio travolti da una rassegnazione senza remissione.
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Il corpo del giovane viene rinchiuso in un telo di plastica e nemmeno la pietà è concessa al tempo di ebola: a parenti e vicini infatti non è permesso neppure un ultimo sguardo e un ultimo saluto al defunto. Il sacco viene inserito in un ulteriore telo, che a sua volta viene collocato nella bara che immediatamente è chiodata e portata all’obitorio dove si sta celebrando un altro funerale, questa volta si tratta di Liliane Ebambe, una bambina di soli tre anni.
L’epidemia del virus ebola in Congo “vanta” due primati agghiaccianti. Si tratta della prima epidemia del virus in un contesto di guerra e la più spietata per numero di bambini contagiati, secondo i dati dell’Unicef il 30 per cento delle vittime sono minori: su 850 bambini infettati le morti sono state più di 600. Per rendersi conto della dramma contenuto in queste stime occorre recarsi al centro di trattamento dove vengono ricoverate le persone che hanno contratto la malattia e dove medici e infermieri lavorano senza sosta, in un’angosciante lotta contro il tempo, per salvare vite umane.
Non esiste cura contro ebola
”Ebola è una malattia letale e non esiste una cura, un palliativo come per la malaria o altre patologie. L’unica possibilità di salvarsi che ha chi la contrae è presentarsi nei centri di cura a partire dai primi sintomi”. A parlare è il dottor Joel Efoloko, uno dei medici che ha deciso di schierarsi in prima linea nella lotta contro il morbo, che poi aggiunge: ”Il tasso di mortalità è intorno al 70 per cento e da quando è scoppiato il contagio abbiamo assistito a un alto numero di bambini colpiti. La situazione è veramente tragica perché la malattia non si arresta. Siamo in una zona di guerra, gli attacchi delle milizie ribelli sono continue e la diffusione di teorie cospiratorie non fa altro che aumentare lo stato di crisi in cui versiamo”.
Il dottor Efoloko ci accompagna all’interno del centro di trattamento dove medici vestiti con tute ermetiche entrano ed escono da tende trasparenti all’interno delle quali sono ricoverati i pazienti. Donne, uomini e bambini che hanno contratto l’ebola sono in totale isolamento e ogni paziente è seguito da due medici e un infermiere che controllano i parametri, l’ossigenazione e somministrano le cure. In una stanza è ricoverata una donna incinta, accanto ci sono dei neonati e uno con il corpo divorato dalle piaghe, poco distante c’è Eliel che ha 10 anni, i pantaloni sono sporchi di sangue, il volto è coperto da una maschera dell’ossigeno e le sue condizioni sono estremamente critiche. Igo, suo padre, è immobile e, dal di fuori della stanza ermetica, non smette di guardare il figlio. Quando gli viene chiesto cosa abbiano detto i medici, confida: ”Mia moglie e mio figlio sono entrambi malati. I medici mi hanno detto che mia moglie sta guarendo e la sua situazione è migliorata. Per quel che riguarda mio figlio invece, mi hanno detto che se credo in Dio, non mi resta che pregare”.
Le foto di questo reportage esclusivo sono di Marco Gualazzini
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