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Edie Mukiibi. Per andare avanti, dobbiamo tornare alla terra
Il destino dell’umanità è legato alla biodiversità, il patrimonio più ricco della Terra che ci fornisce sostentamento per la nostra sopravvivenza. Senza di essa, il nostro futuro sarebbe segnato. In occasione di Seeds&Chips 2017, il summit su cibo e innovazione organizzato a Milano, abbiamo incontrato Edward Mukiibi, vicepresidente di Slow Food International e coordinatore delle attività in
Il destino dell’umanità è legato alla biodiversità, il patrimonio più ricco della Terra che ci fornisce sostentamento per la nostra sopravvivenza. Senza di essa, il nostro futuro sarebbe segnato. In occasione di Seeds&Chips 2017, il summit su cibo e innovazione organizzato a Milano, abbiamo incontrato Edward Mukiibi, vicepresidente di Slow Food International e coordinatore delle attività in Uganda per Slow Food. Mukiibi è un agronomo nato e cresciuto in Uganda, dove lavora con le comunità e i giovani locali con l’obiettivo di rilanciare le tecniche agricole tradizionali per affrontare le sfide future. La sua missione è difendere e promuovere la biodiversità africana.
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Tornare alla terra e a un suo uso sostenibile è essenziale per il futuro delle persone e della biodiversità. Cos’è la petizione People4Soil che supporta Slow Food e perché è importante?
Il suolo è un essere vivente, in sé racchiude tanta vita e biodiversità. E quando decidiamo di smettere di nutrirlo, smettiamo di nutrirci: dobbiamo nutrire la terra per nutrire noi stessi. Dobbiamo prenderci cura del suolo, non inquinarlo. È una risorsa non rinnovabile e se continuiamo a distruggerlo, non ci sarà più nulla da fare. Il suolo è alla base di molte civiltà: la vita di numerose persone è legata alla terra e molte comunità vengono costruite su di essa. Ecco perché dobbiamo proteggere questa risorsa non rinnovabile.
Un’altra iniziativa dei cittadini europei (Ice) che supportate ha l’obiettivo di vietare il glifosato. Cosa pensa di questo erbicida – che è il più usato in agricoltura?
Il glifosato è molto usato ma, in realtà, non è una necessità nei nostri sistemi di produzione. È diventato uno standard che distrugge l’ambiente e la biodiversità, che crea dipendenza e soprattutto vincola le persone alle multinazionali che lo producono. In più, non distrugge soltanto le erbacce ma anche altre forme di vita, come i milioni di insetti presenti nel suolo e le api, che sono una delle cose più importanti esistenti sulla faccia della Terra.
Inoltre, non è vero che le piante selvatiche sono inutili. Anzi, apportano molti benefici all’ecosistema. In alcune comunità non abbiamo a disposizione i sistemi di mappatura di ultima generazione e, per questo, i piccoli agricoltori dipendono dalle piante. Ad esempio, nel nostro sistema agricolo tradizionale in Africa ne usiamo alcune come indicatori: quando crescono ci dicono cosa va bene per quel tipo di terreno. Ma se hai un sistema industriale a monocoltura che usa grandi quantità di glifosato, alla fine alcune specie o tipi di colture smetteranno di crescere.
Lei sta lavorando anche nelle comunità e nelle scuole africane con il progetto 10.000 orti in Africa. Di cosa tratta questa iniziativa?
Il progetto 10.000 orti in Africa è realizzato da noi, gli africani, che supportiamo la filosofia di Slow Food e crediamo che anche i popoli d’Africa meritino l’accesso al cibo buono, pulito e giusto. Abbiamo creato questo progetto per rivitalizzare i nostri sistemi agricoli tradizionali che sono sempre stati lì per noi e sono fatti apposta per l’ambiente ostile dell’Africa.
Questo progetto aiuta anche a preservare la nostra conoscenza locale e tradizionale. Aiuta a riconnettere la vecchia e la nuova generazione, perché ci sono uomini e donne che potrebbero insegnare molto ai ragazzi sulla biodiversità e sul sistema agricolo locale, su come gestire il suolo e come superare la siccità. Questa è la conoscenza che dobbiamo tramandare alla nuova generazione africana.
Essendo l’Africa un paese giovane in termini demografici, dobbiamo ristabilire una connessione tra i giovani e la terra. Troppo spesso perdiamo il contatto con le terre perché si crede che la gente non le usi e, quindi, vengono date agli investitori dalla Cina o da altre parti del mondo. Alla fine chi ci perde sono le comunità. Ma se ricostruiamo questo legame per ridurre le migrazioni rurali, riusciremo a costruire una comunità che comprende il vero valore di coltivare il proprio cibo, usando la terra che abbiamo.
Il progetto 10.000 orti in Africa cerca di unire tutte queste cose. Slow Food ha aiutato a far conoscere e ad espandere il progetto in molti paesi, soprattutto nelle comunità che stavano perdendo dalle proprie attività.
Ci può parlare anche del suo progetto personale, Developing innovations in school cultivation?
Il progetto Developing innovations in school cultivation è stato avviato per rimodellare l’atteggiamento dei giovani nei confronti dell’agricoltura. Sono cresciuto in una fattoria con mia madre, ma la scuola mi ha portato a odiare questo tipo di attività. E questo perché molte scuole africane usano l’agricoltura come una forma di punizione. Così, volevamo creare qualcosa di positivo, educativo, motivante e soprattutto interessante. Mi è venuta questa idea, abbiamo iniziato a lavorarci parlando con i giovani per riportarli all’agricoltura. In questo modo possono lavorare con la terra, trovare nuove tecniche e rivisitare quelle già esistenti. Se gli diamo spazio, diventeranno innovatori.
Cosa intende per innovazione e che ruolo avrebbe la nuova generazione?
Io non credo nel creare totalmente cose nuove. Credo che ci siano alcune pratiche tradizionali molto buone che promuovono l’agroecologia [un approccio che adotta una visione olistica dell’agricoltura, ndr], ma che hanno bisogno di essere rivisitate o aggiornate affinché riescano ad affrontare le sfide correnti. Stiamo lavorando in alcune scuole con questo progetto, ma non abbiamo ancora ricevuto abbastanza finanziamenti per portarlo su una scala più ampia, anche se speriamo che questo avvenga presto. Abbiamo bisogno di persone che investano nell’agricoltura sostenibile, accorciando la filiera alimentare, producendo additivi per il suolo vegetali, lavorando con i giovani innovatori.
Come può un’agricoltura locale e sostenibile essere la soluzione in un mondo sempre più globalizzato?
Tutti proveniamo da una comunità locale. Quindi la sfida è nostra: ripensare e ricostruire un’economia vicina a noi, che supporti gli agricoltori e i venditori locali e i mercati contadini. Solo così riusciremo ad unire tutti i puntini. Prima di agire a livello globale dobbiamo iniziare ad agire a livello locale. Credo che dobbiamo iniziare da noi stessi, incontrando gli agricoltori ai mercati locali e dandogli feedback sui loro prodotti. A livello locale c’è questa connessione tra consumatori e produttori. Se uniamo tutti questi puntini la questione globale verrà risolta. Questo non vuol dire che dobbiamo smettere di comprare al supermercato perché dobbiamo anche parlare con le grandi aziende per creare degli scaffali dedicati ai prodotti degli agricoltori locali. È un lavoro di attivismo, di lobby positiva. Un passo per volta, possiamo farcela.
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