Finora sono morte almeno sette persone. Le forze di polizia stanno investigando per capire se gli incendi siano dolosi e hanno arrestato sette persone.
Gli elefanti combattono il riscaldamento globale, ma noi li ringraziamo con il bracconaggio
L’uccisione degli elefanti da parte dei bracconieri contribuisce ai cambiamenti climatici. Fabio Berzaghi, autore della ricerca, spiega perché.
Gli elefanti vengono uccisi, gli alberi non crescono, l’anidride carbonica pertanto aumenta e il riscaldamento globale peggiora. Si potrebbe schematizzare così la ricerca dello scienziato italiano Fabio Berzaghi, pubblicata sulla rivista Nature Geoscience, che ha attirato l’attenzione degli esperti mondiali di cambiamenti climatici. Analizzando il comportamento degli elefanti africani di foresta, specie animale a rischio estinzione, Berzaghi ha rivelato un fattore finora non considerato nella già drammatica situazione: la morìa di questi animali, dovuta al bracconaggio, contribuisce all’aumento delle temperature. Lo stesso scienziato, che lavora in Francia, ci ha spiegato il perché.
Questi erbivori calpestano quasi esclusivamente alberi di altezza inferiore ai 30 centimetri e preferiscono mangiare piante a crescita rapida. Così facendo lasciano spazio per crescere ad arbusti più grandi, in grado di immagazzinare maggiori quantità di anidride carbonica, che in questo modo non viene rilasciata nell’ambiente aggravando i cambiamenti climatici. La scomparsa recente di molti pachidermi, dovuta soprattutto alla domanda di avorio, fa sì che ora intere zone di foresta in Congo non riescano più a svolgere il loro prezioso lavoro di protezione.
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Perché è importante per l’ambiente che gli alberi trattengano anidride carbonica?
Gli alberi, immagazzinando anidride carbonica, aiutano a ridurre e stabilizzare la concentrazione di CO2 nell’atmosfera. Più questa concentrazione aumenta, maggiore diventa la quantità di raggi solari che “rimbalzano” verso la Terra anziché uscire nello spazio. Questo causa un innalzamento delle temperature con conseguenze osservabili nel medio-lungo termine (30+ anni). Nel corso di migliaia di anni gli esseri viventi si sono adattati alle attuali condizioni ambientali; quando queste condizioni mutano troppo repentinamente gli organismi non hanno il tempo di adattarsi o migrare, rischiando l’estinzione. A sua volta, la perdita di troppe specie rischia di compromettere in modo irreparabile gli ecosistemi e i servizi ecosistemici da cui dipendono anche gli esseri umani.
Qual è il ruolo degli elefanti africani nella penetrazione della luce e nella disponibilità d’acqua all’interno delle foreste?
Diradando il sottobosco gli elefanti riducono il numero di piante nella foresta. Se meno piante competono per l’acqua e la luce, quelle che riescono a sopravvivere hanno a disposizione più risorse, così diventano alberi adulti con una chioma folta e radici estese.
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Perché in questo studio si è posta l’attenzione sugli elefanti rispetto agli altri grandi erbivori dello stesso habitat?
Prima di tutto, l’elefante è l’animale terrestre più grande al mondo: nelle foreste del Congo le sue dimensioni sono dieci volte maggiori di quelle degli altri grandi erbivori. Prima del nostro studio, già da qualche anno circolavano alcune ipotesi non testate sul ruolo dell’elefante nelle dinamiche forestali e nel ciclo del carbonio. La seconda ragione è che il numero di elefanti superava il milione prima del 1900, è sceso a meno di 100mila nel 2013, e si stima che fra qualche anno la specie sarà quasi estinta per colpa del bracconaggio.
Quali sono le similitudini e le differenze con gli altri grandi erbivori nell’influenzare l’ecosistema?
Le similitudini sono la consumazione di foglie di piccoli alberi, di arbusti e di frutta. L’elefante, rispetto ad altri grandi erbivori, tende ad essere un ottimo dispersore di semi, cosa che permette alla foresta di rigenerarsi. Può inoltre sradicare alberi più grandi e rompere rami così da raggiungere frutti e foglie in zone inaccessibili ad altri erbivori. Si può dire che l’elefante sia un giardiniere molto efficiente nel piantare semi e nel diradare il sottobosco: nella foresta si nota subito dov’è passato.
Lei si è recato in Congo per studiare il fenomeno? In caso contrario, come ha ottenuto i dati necessari?
Ho ottenuto i dati semplicemente chiedendoli ad alcuni ricercatori che avevano lavorato in Congo. Fortunatamente nell’ecologia c’è un buono spirito di collaborazione e condivisione, anche tra ricercatori che non si conoscono, quindi spesso basta inviare un’email ben scritta, presentando un’idea di base riguardo l’utilizzo che si vuole fare delle informazioni, per ottenere una risposta positiva. Ho utilizzato inoltre dati già pubblicati, accessibili al pubblico. Non sono stato in Congo, ma ho visitato altre foreste tropicali in Asia, in America centrale e meridionale, il che mi ha comunque aiutato durante la mia ricerca.
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Come mai si è avvicinato a questa ricerca?
Ho studiato un anno alla University of Washington a Seattle, negli Stati Uniti, e il mio tutor al tempo si occupava di tracciare, tramite analisi genetiche, la provenienza delle zanne di elefante sottratte al commercio illegale d’avorio. Prima dello studio sull’elefante africano ho pubblicato un’analisi sulle funzioni ecologiche dei grandi erbivori nelle foreste tropicali, cercando di proporre nuovi metodi per capire meglio come la perdita di questi animali possa modificare l’ecosistema. Ora ho ricevuto una borsa Marie Skłodowska-Curie, un fondo di ricerca dell’Unione europea, che mi permetterà di studiare l’effetto degli stessi sugli ecosistemi di tutto il mondo e le relative ripercussioni sul clima. Mi occuperò in particolare dei cicli di carbonio, azoto e fosforo e di come i grandi erbivori permettano il riciclo di tali elementi, fertilizzando il suolo e aiutando le piante a crescere più rapidamente. L’altro aspetto importante sarà valutare l’effetto diretto e indiretto di queste specie sui gas ad effetto serra: anidride carbonica (CO2), protossido di azoto (N2O) e metano (CH4).
Si è parlato molto degli incendi in Amazzonia appiccati dai contadini, un fenomeno che si verifica anche in Africa. Come influisce su flora e fauna?
L’Africa e il fuoco hanno un rapporto di lunga data e gli incendi, sia naturali che antropici, hanno modellato il continente per migliaia di anni, quindi è difficile distinguerne gli effetti. Nell’Africa tropicale gli incendi di origine naturale sono rari e più frequenti nella savana, ma da millenni le popolazioni locali ricorrono alle fiamme per rigenerare i pascoli destinati all’allevamento e per lasciare spazio all’agricoltura. Rispetto all’Amazzonia, quindi, gli incendi in Africa si verificano in zone di savana o campi coltivati da piccoli proprietari terrieri, quindi il rischio di deforestazione è di gran lunga minore.
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Il bracconaggio è tuttora un problema: c’è un rimedio secondo lei a questa pratica?
I rimedi ci sono: interdizione mondiale del commercio d’avorio e maggiori controlli da parte delle forze dell’ordine all’interno di parchi nazionali ed aree protette. Purtroppo sono soluzioni difficili e dispendiose. L’abolizione totale è controversa, ma i ricercatori che si occupano di queste tematiche ne sostengono la necessità. Partendo dalle radici del problema, un importante lavoro svolto dalle ong è la sensibilizzazione del pubblico nei mercati principali dell’avorio come l’Asia, perché le persone comprendano che acquistarlo ha conseguenze ecologiche, politiche e, come suggerisce il nostro studio, anche climatiche. Non dimentichiamo che l’avorio finanzia una serie di attività illegali, in primis le organizzazioni terroristiche e di guerriglia come Boko Haram.
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