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Come si cura la malaria, in Africa
Da giugno l’epidemia di malaria in Uganda non lascia scampo. E colpisce soprattutto loro, i bambini. I “perché” sono tanti e non sempre facili da accettare. Il racconto dall’ospedale di Kalongo.
di Antonella Tuscano, specializzanda in pediatria
Kalongo, nord Uganda, settembre 2019. Da quando sono arrivata a Kalongo, ormai più di un mese fa, ho incise nella memoria tante immagini. La vista del monte Oret dall’elicottero, il sorriso adorabile di Aniceto, il cuoco della guest-house, gli insetti giganti che ti trovi ad affrontare la sera nella tua stanza. E naturalmente gli sguardi dei bambini. Buffissimi alcuni, spaventati dal fatto che il “doctor” sia una strana sconosciuta di colore bianco da cui scappare, più impavidi altri che si fanno coraggio e ti seguono ovunque.
I bambini e la malaria a Kalongo
La cosa che mi colpisce di più ogni mattina, quando inizio la mia giornata in ospedale divisa tra la terapia intensiva neonatale e la pediatria non sono gli sguardi, i sorrisi o i colori sgargianti dei vestiti che spesso indossano i bambini. Sono i numeri quelli che restano più impressi: 208 è il numero di bambini ricoverati ora in pediatria, 61 i posti letto disponibili in reparto, 1.353 i bambini sotto i 5 anni colpiti da malaria accolti in ospedale negli ultimi tre mesi. 1,8 il valore di emoglobina più basso mai visto in vita mia, talmente basso che sarebbe folle pensare possa essere compatibile con la vita. Questo è il valore di emoglobina del primo bambino che ho visto morire di malaria a Kalongo.
Quest’anno è da inizio giugno che l’epidemia di malaria qui in Uganda non lascia scampo, e colpisce soprattutto loro, i bambini. E i perché sono tanti e non sempre facili da accettare. Perché non hanno messo in atto le procedure di disinfestazione ambientale, perché l’ignoranza porta le persone del luogo a fare tende con le zanzariere distribuite dal governo, anziché proteggere i propri letti dalle zanzare, perché la superstizione dice che dormire sotto una rete non ti rende più fertile e qui una donna, se vuole essere accettata da suo marito e dalla famiglia, deve avere tanti bambini.
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E guarda caso, quelli che arrivano in fin di vita in ospedale sono proprio loro, i bambini. I più fortunati arrivano a Kalongo sui boda, le motociclette ugandesi, altri arrivano a piedi, stremati, dopo aver percorso tantissimi chilometri, partiti da chissà quale villaggio sperduto nella savana, tutti bagnati di pioggia e sporchi di fango. Tanti arrivano in condizioni disperate, quando per loro è già troppo tardi. Tutti arrivano a Kalongo nella speranza di trovare una cura.
Qual è la cura per la malaria, in Africa?
E quale sarebbe la cura per la malaria? L’Artesunate è la cura nelle forme di malaria complicata, ma nelle forme con grave anemia qual è la cura? Il sangue. E questo è un problema in tutta l’Africa, non solo a Kalongo. Qui la banca del sangue più vicina si trova a Gulu, una cittadina che dista più di tre ore di macchina ma volte il sangue non c’è nemmeno a Gulu. Che si fa allora? Si inizia a fare lo screening ai genitori, per vedere se sono compatibili. Spesso i genitori non possono donare perché hanno già donato all’altro figlio che ha avuto la malaria la settimana prima, oppure perché sono mamme in gravidanza, o papà con una malattia trasmissibile attraverso il sangue come l’Hiv o l’epatite B. Altre volte non sono semplicemente compatibili.
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Cosa può fare un medico per impedire che un bambino con 1.8 di emoglobina muoia? Provi a chiedere agli altri famigliari, ma spesso vivono troppo lontano e non arriverebbero in tempo. Se sei compatibile tu, e negli ultimi tre mesi non ha già donato, doni tu stesso. Ieri sono riuscita a trovare una studentessa di ostetricia che donasse per un altro bambino che aveva 2,8 di emoglobina, e questo ce l’ha fatta.
Ma se per tutti questi casi di anemia gravissima, senza sangue non si può fare molto, per gli altri casi, con valori di emoglobina sopra i 5 gm/dl, la cura principale resta il medicinale, l’Artesunate. Dobbiamo salvare la vita di questi bambini. Non possiamo e non dobbiamo arrenderci. Si può e si deve andare avanti.
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